Pace per gli uomini "di buona volontà" o per gli uomini "amati da Dio"? I dubbi sul Gloria e una risposta. Due articoli da Avvenire
Il grande studioso e filologo Carlo Ossola espone ad Avvenire per i suoi dubbi sulla nuova traduzione del "Gloria" nel Messale Romano. Sempre su Avvenire, un articolo di Giulio Michelini.
G. Michelini - C. Ossola, Il nuovo Gloria, Avvenire 11 12 2020
Un commento di Gianni Gennari: https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/l-uomo-tra-gloria-vivente-de-profundis-e-miserere
Carlo Ossola, “Gli uomini di buona volontà”
Il Gloria della santa Messa si richiama all’Evangelo di Luca: «“ Gloria in altissimis Deo, et super terram pax in hominibus bonae voluntatis ”» (II, 14). È una moltitudine di angeli («multitudo militiae caelestis laudantium Deum» ) che intona il canto di lode per la nascita del Salvatore; gli altri Evangeli, sempre nella Vulgata latina che ha sorretto i secoli del credere in Occidente, non parlano di questo episodio che circonda la nascita del Cristo; ma esso è rimasto nel Gloria : «Gloria a Dio, nell'alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà. / Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, / ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, / Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente».
Ma dalla I domenica dell’Avvento 2020, quel versetto di Luca suona: «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama». Il cambiamento tocca anche il versetto del Padre nostro: «e non ci indurre in tentazione» (Dio non può spingerci al Male) che diviene, molto più sensatamente: «E non ci abbandonare alla tentazione». Mentre in questo secondo caso il soggetto resta lo stesso (Dio) e si rende più coerente il suo agire, nel primo caso – quello del Gloria – la pace non è invocata sugli “uomini di buona volontà”, ma su quelli “che Dio ama”. La modifica non è di poco conto, anche se vigente da tempo nella liturgia della santa Messa in francese: « Gloire à Dieu, au plus haut des cieux, / Et paix sur la terre aux hommes qu’il aime».
La questione merita di essere meditata perché implica uno spostamento profondo di senso, tanto antropologico che teologico. Il testo greco, che consuona con la Vulgata latina, è trasparente: «εἰρήνη ἐν ἀνθώποις εὐδοκίας» (alla lettera: «pace negli uomini di benevolenza [che vogliono il bene]». Per quasi due millenni la cristianità ha accolto il Gloria come discesa del divino (il Cristo con i suoi angeli) tra gli uomini: ed a «quelli che vogliono il bene», che sono «di buona volontà», promette pace.
In nome di questa disposizione d’animo, di questa εὐδοκία, Dante ha posto in Paradiso molti “giusti” dell’antichità greca e romana, e parte della filosofia medievale ha esteso persino il senso di questa εὐδοκία: «anima humana naturaliter christiana». Il “voler bene” degli uomini, l’agire rettamente è simmetrico alla Gloria di Dio, ne è riflesso e parte: l’uomo giusto è nell’economia del Cristo.
La nuova formula ci riporta a un’origine (forse) ma non a una storia; non è solo contradditoria con secoli e secoli di testi e di esegesi e di musica e di poesia del popolo di Dio; basterebbe ricordare, tra i tanti esegeti medievali, Anselmo di Laon (1050-1117) il quale si soffermava sul «Bonae intentionis praemium, etsi voluntas non habeat effectum, quia pax hominibus bonae voluntatis» [«il premio della buona intenzione, anche se la volontà non andasse ad effetto, poiché è detto “pace agli uomini di buona volontà”»: PL, 113, 484B]. Più ancora, riconducendo tutto all’iniziativa di Dio (“e pace in terra agli uomini che egli ama”) non solo toglie all’uomo la dignità salvifica del “ben volere e ben agire”, ma lascia a Dio, nella sintassi vacillante delle lingue volgari, un ruolo ambiguo: quel “che egli ama” significa la totalità? – gli uomini tutti che Dio ama – o solo quella parte “che egli ama”?
L’analisi ci porterebbe lontano o forse troppo vicini alla visione riformata, luterana, ove tutto dipende dalla Grazia e le opere, senza essa, sono inutili. Voglio qui soltanto sottolineare che questo non è un cambiamento di parole, ma di sostanza: che certo riconosce la eminente bontà di Dio, la sua iniziativa che sempre precede, ma non lascia nulla agli uomini “che meriti di essere offerto”.
Da quest’anno possiamo togliere, dai nostri presepi, i tre Re Magi e tutto quel poco che avevano con sé i pastori, andando ad adorare. È malinconico, e doloroso, non poter più ripetere con san Bernardo: «Inde est quod nato Domino angelorum chorus canebat: “Pax in terra hominibus bonae voluntatis” (Luc. II, 14) . Sed et tunc iustitia et pax osculatae sunt, quae non modice videbantur hactenus dissidere »: «e da ciò discende quello che, alla nascita del Signore, il coro degli angeli cantava: “Pace in terra agli uomini di buona volontà”. Ora, finalmente, giustizia e pace si sono abbracciate, le quali non poco sembravano sin qui essere in dissidio» (In annuntiatione B. V. Mariae, in PL, 183, 390A). E forse dovremo anche togliere la terzina del miglior allievo di san Bernardo che in quella “buona volontà” umana aveva posto tutta la sete, tutto il desidero, tutto il violento ardore che ci strappa da terra: «Regnum celorum vïolenza pate / da caldo amore e da viva speranza, / che vince la divina volontate» (Paradiso, XX, 94-96).
Giulio Michelini - La pace che viene dalla benevolenza divina
La traduzione della Bibbia approvata dalla CEI nel 2008 è stata un’operazione titanica, che ha attivato molti bravi esegeti italiani e permesso di migliorare (e talvolta correggere) il testo della precedente versione del 1974 con più di centomila interventi. Sulla base di quella traduzione è stato rivisto il Messale romano, con le novità di cui si è più volte parlato.
Se ciò ha comportato riscoprire parti della Bibbia e svegliarsi da una letargica abitudine che spesso induceva a ripetere in fretta frasi date per scontate, ben vengano anche le domande e le critiche riguardanti alcuni cambiamenti. Tra questi alcuni hanno suscitato perplessità, come la formula del Padre nostro sulla tentazione, o il canto degli angeli, il Gloria.
Quest’inno è uno dei quattro (con il Magnificat, il Benedictus e il Nunc Dimittis) coi quali Luca apre il racconto delle origini di Gesù, ed è tanto più significativo per questo evangelista, che lo riproporrà, questa volta in forma inversa, nella pagina dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme («Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli»; Lc 19,38), così da formare un’inclusione “speculare”: la moltitudine celeste canta la pace sulla terra per la nascita del Figlio, mentre quella terrena, il gruppo dei discepoli arrivati con Gesù nella città santa, canta la pace in cielo!
Se l’idea di gloria e di pace in cielo è comprensibile, la pace sulla terra è forse soltanto per gli uomini «di buona volontà»? La frase cantata dagli angeli in Lc 2,14 è complicata, e alla lettera suona «e sulla terra pace, negli uomini della eudokía». Se noi ora abbiamo nelle orecchie la versione latina della Vulgata di San Girolamo (et in terra pax hominibus bonae voluntatis), da cui la precedente resa italiana del Gloria («e pace in terra agli uomini di buona volontà»), tali parole non sono sempre state comprese in questo modo, e ancor prima della Vulgata.
L’eudokía infatti è stata vista come attributo divino nell’antica e prestigiosa versione siriaca (Taziano, Peshitta), dove si legge «buona speranza per i figli degli uomini» e nella versione latina (Itala) riportata dal Codice Bezae Cantabrigiensis, dove è scritto: gloria in altis deo et super terra pax in hominibus consolationis. Quest’ultimo caso è interessante: la consolazione non può che venire da Dio, e dunque la pace è per gli uomini “della sua consolazione”. Alcune comunità cristiane dei primi secoli, insomma, ancora prima della versione del grande padre Girolamo (terminata nel 383), traducendo nelle loro lingue comprendevano l’eudokía non in senso antropologico, ma in riferimento a Dio.
Dalla traduzione della Vulgata, tra l’altro, non siamo così sicuri che l’eudokía si riferisse alla buona volontà degli uomini, ma certamente questa è l’interpretazione comune che ne è derivata, proprio perché «la traduzione latina è poco chiara e a seguito della moralizzazione crescente della fede cristiana nella tarda antichità» (François Bovon).
Su questo tema c’è stato un dibattito secolare che però è terminato dopo che i testi di Qumran hanno finalmente apportato la prova necessaria. Il confronto con gli scritti coevi ha infatti permesso di leggere un testo biblico comprendendone meglio le intenzioni, e di scoprire il probabile significato di eudokía nell’inno angelico. È quanto raccomandava di fare la Dei Verbum, la Costituzione dogmatica del Vaticano II sulla Rivelazione, dove si diceva che «per comprendere in maniera esatta ciò che l’autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell’agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei rapporti umani» (n. 12).
Tra i biblisti italiani il primo a dar conto di una diversa possibile interpretazione di eudokía fu Francesco Vattioni, in una breve nota nella neonata Rivista Biblica Italiana, nel 1959, con la quale informava che già da trent’anni avanti un eminente esegeta tedesco, Joachim Jeremias, aveva intuito che eudokía doveva riferirsi alla buona volontà di Dio, ma non aveva trovato un parallelo diretto nella letteratura. Solo nel 1952, infatti, C.H. Hunzinger affermò che il testo del Gloria si poteva comprendere meglio alla luce dei testi di Qumran, e lo confrontò con una frase in un manoscritto della prima grotta scoperta presso il Mar Morto, «figli del suo beneplacito» (1Q 4,32-33).
Ciò permise anche di valorizzare lo stile di Luca, il quale usa il sostantivo eudokía sempre in riferimento alla volontà divina di salvezza (cf. anche Lc 10,21, e il verbo eudokéo in 3,22 e 12,32), conformemente cioè a quanto si trova nei manoscritti di Qumran e alle volte in cui nella Bibbia ebraica ricorreva la parola ratzon. L’inno degli angeli – come gli altri tre del racconto delle origini – era infatti, con tutta probabilità, un canto della comunità giudaico-cristiana di Gerusalemme, che lodava Dio per la sua ratzon (in ebraico, “santa volontà” di bene), la sua decisione irrevocabile di salvezza, che Luca ha ripreso nel suo vangelo.
Pian piano questa interpretazione si è fatta strada, e se Papa Giovanni XXIII nel Radiomessaggio del 22 dicembre 1962, parlando dell’amore per la pace, ancora diceva che «ad essa si congiunge come condizione la buona volontà di tutti e di ciascuno, pax hominibus bonae voluntatis», Giovanni Paolo II nel Discorso al Sacro Collegio dei Cardinali (22 dicembre 1980) proponeva la nuova comprensione di eudokía: «La Chiesa vuole dilatare, pur tra le sofferenze del mondo, quella pace che è stata annunciata dagli angeli a Betlemme, e quell’amore di beneplacito, con cui Dio ci ha abbracciati donandoci il Figlio: Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis».
Pochissimi sono i commenti patristici a Luca sui quali basarci per vedere come l’eudokía fosse compresa nell’antichità, ma si può fare un confronto con uno scritto di Agostino, che nel commento al Salmo 5, v. 13, spiegava come per essere giustificati occorre prima la vocazione, e proprio perché «la vocazione non deriva dai nostri meriti, ma dalla bontà e dalla misericordia di Dio», soggiunge: «Signore, come con lo scudo della tua buona volontà (Domine, ut scuto bonae voluntatis tuae coronasti nos) ci hai coronato», concludendo: Bona enim voluntas Dei praecedit bonam voluntatem nostram («La buona volontà di Dio precede la nostra buona volontà») (Enarr. In Ps. V,17,8-10). Anche se non è un commento al Gloria, Agostino sa bene che la volontà umana può compiere il bene solo se è preceduta dalla Grazia, la “buona volontà” di Dio.
Luca, che non trasmette la versione lunga del “Padre nostro”, e non ci permette di pregare con la formula «sia fatta la tua volontà, come in cielo, così in terra» di Matteo (6,10), attraverso il suo indimenticabile Gloria ci chiede di contemplare il Cielo, ma di gioire anche perché, se Dio «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45), allora dona anche la pace agli uomini, amati da lui. Perché tutti gli uomini sono amati da Dio, come affermava già la traduzione CEI del 2008 («e pace agli uomini, che egli ama»), attraverso una virgola che ora è anche nella formula, lievemente cambiata per ragioni di cantabilità, del Messale: «e pace in terra agli uomini, amati dal Signore». Dio, che ama tutti gli uomini, dona loro la pace nel Figlio nato a Betlemme.