Malattia e fragilità nella Bibbia
Riproduciamo un articolo da Civiltà Cattolica sulla malattia e la fragilità nella Bibbia, particolarmente utile in questo tempo di pandemia. La ricerca è apparsa non solo su cartaceo ma anche sul sito web della rivista dei gesuiti: https://www.laciviltacattolica.it/articolo/malattia-e-fragilita-nella-bibbia/
Vincenzo Anselmo, «Malattia e fragilità nella Bibbia», Civiltà Cattolica 4076 (2020) 105-113.
Davanti allo spettacolo della grandezza e della magnificenza del cielo, ricamato con delicatezza dalle dita di Dio, il salmista si chiede: «Che cosa è l’uomo?» (Sal 8,5). La risposta che segue è eccezionale e sorprendente: «Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, / il figlio dell’uomo, perché te ne curi? / Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, / di gloria e di onore lo hai coronato» (Sal 8,5-6).
L’essere umano è posto al vertice della creazione come un essere quasi divino, con il quale Dio stesso condivide i propri attributi di gloria e di maestà. Inoltre, l’uomo così elevato è anche investito del compito di governare tutte le creature, che sono poste sotto i suoi piedi (Sal 8,7-9). Tuttavia, nel Salterio la domanda «Che cosa è l’uomo?» viene ripresa nuovamente e questa volta trova una risposta differente e per certi versi sconcertante: «Signore, che cos’è l’uomo perché tu l’abbia a cuore? / Il figlio dell’uomo, perché te ne dia pensiero? / L’uomo è come un soffio, / i suoi giorni come ombra che passa» (Sal 144,3-4)[1].
Nel Salmo 144 l’essere umano è presentato come hebel, cioè «vapore inconsistente», «un sospiro», «un nulla», «vanità». Le molte sfumature di questa parola saranno riprese nel libro del Qoèlet, dove il termine hebel ricorre per ben 38 volte: «Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità» (Qo 1,2). L’esistenza è instabile e incerta, mentre la vita dell’uomo è effimera e passa in fretta, in modo inesorabile.
Entrambe le risposte alla domanda «Che cosa è l’uomo?» sono vere e aprono una finestra su quello che è il grande mistero dell’essere umano, creato a immagine di Dio (Gen 1,26-27) e costituito sovrano del cosmo, eppure creatura debole e vulnerabile[2]. Nel secondo racconto della creazione un’immagine eloquente e incisiva introduce il credente al mistero della grandezza e della fragilità che caratterizza ogni essere umano: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gen 2,7).
Dio è presentato come un vasaio che modella l’essere umano dalla polvere della terra e instilla in lui il soffio di vita. Questo versetto coglie profondamente le tensioni opposte presenti nell’uomo: una creatura fragile, precaria, vulnerabile perché viene dal suolo, ma alla quale al tempo stesso è trasmessa la vita divina. L’essere umano, paragonato al prodotto dell’opera di un artigiano, è modellato come un vaso di creta, che può rompersi e spezzarsi[3]. Eppure, egli non è un mero oggetto inanimato, ma è vivo, avendo dentro di sé quel principio vitale, quel soffio della creazione che appartiene solo a Dio e che fa sorgere il vivente dalla polvere (cfr Gen 2,7).
Fragilità e malattia
La costitutiva debolezza dell’essere umano appare in tutta la sua serietà nell’esperienza della sofferenza, della malattia e della morte. La vita si rivela incerta e fugace, costantemente minacciata dal male[4]. Perché la malattia è presente nel mondo e tocca in maniera così drammatica la carne dell’uomo e ne prostra lo spirito?
Nella Scrittura troviamo tracce di quello che è il teorema retributivo: «La maledizione del Signore è sulla casa del malvagio, mentre egli benedice la dimora dei giusti» (Pr 3,33). La sofferenza e la malattia sarebbero, dunque, una conseguenza del peccato commesso dall’uomo personalmente e collettivamente. L’applicazione automatica di questo modello è messa in crisi all’interno della Scrittura stessa. Di fatto, in alcuni significativi passi biblici, questa teoria viene smentita dall’esperienza pratica della vita degli uomini e delle donne. Sotto questo aspetto, il libro di Giobbe è esemplare. Infatti, Giobbe è un uomo integro e retto che viene colpito da molte calamità, compresa la malattia, «una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo» (Gb 2,7).
Gli amici che vanno a visitarlo spiegano la sua sofferenza con la teoria della retribuzione: «Quale innocente è mai perito e quando mai uomini retti furono distrutti? Per quanto io ho visto, chi ara iniquità e semina affanni, li raccoglie» (Gb 4,7-8)[5]. Essi si ergono a difesa di Dio, affermando che, se il loro amico soffre, è a causa della sua colpevolezza. Eppure, davanti alle accuse che gli vengono mosse, Giobbe confessa più volte la propria innocenza[6]. Alla fine del libro, sarà la voce autorevole di Dio ad attestare che i giudizi formulati dagli amici non sono corretti, a differenza delle affermazioni di Giobbe che, invece, sono appropriate: «[Il Signore] disse a Elifaz di Teman: “La mia ira si è accesa contro di te e contro i tuoi due amici, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe”» (Gb 42,7).
Anche Gesù nei Vangeli non accetta una fin troppo facile connessione tra peccato, sofferenza e malattia. Davanti ai discepoli che si interrogano sui peccati del cieco nato, egli risponde rimandandoli a Dio e a quanto il Signore può operare nella vita di quest’uomo invalido nel corpo: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio» (Gv 9,3). Gesù non va alla ricerca delle colpe, ma invita a sperare in un Dio che è capace di operare traendo il bene perfino dal male (cfr Gen 50,20).
La preghiera dell’uomo che soffre: il Cantico di Ezechia
Cosa accade nel cuore di chi vive la drammatica esperienza del male e della sofferenza? Al centro del libro di Isaia troviamo un’ampia narrazione incentrata sul re Ezechia (Is 36–39). Nel racconto è inserito uno scritto attribuito al re di Giuda, un poema chiamato «Salmo o Cantico di Ezechia»[7].
Il sovrano è afflitto da un male di cui non si conosce la natura, ma che certamente lo porterà alla morte. La reazione di Ezechia davanti all’inesorabilità della malattia manifesta tutto il suo sconforto rispetto alle parole del profeta Isaia che gli preannunciano la fine imminente: «Ezechia allora voltò la faccia verso la parete e pregò il Signore dicendo: “Signore, ricordati che ho camminato davanti a te con fedeltà e con cuore integro e ho compiuto ciò che è buono ai tuoi occhi”. Ed Ezechia fece un gran pianto» (Is 38,2-3).
Le espressioni utilizzate indicano lo stato di afflizione in cui si trova il re di Giuda; d’altra parte, egli non rimane chiuso in se stesso con la faccia rivolta alla parete, ma lo sconforto si muta in preghiera accorata rivolta al Signore. Al termine della sua invocazione Ezechia piange, segno della gravità della sua condizione, ma anche di tutta la tensione presente nel suo volgersi a Dio. Dopo la preghiera un nuovo messaggio divino viene consegnato a lui dal profeta: «Allora la parola del Signore fu rivolta a Isaia dicendo: “Va’ e riferisci a Ezechia: Così dice il Signore, Dio di Davide, tuo padre: Ho udito la tua preghiera e ho visto le tue lacrime; ecco, io aggiungerò ai tuoi giorni quindici anni”» (Is 38,4-5).
A questo punto, nel racconto viene introdotto uno scritto poetico con un titolo che anticipa per il lettore il passaggio del re dalla malattia alla guarigione, dal lamento alla lode: «Cantico[8] di Ezechia, re di Giuda, quando si ammalò e guarì dalla malattia» (Is 38,9).
Questo poema mostra il percorso intimo del re dal lamento al ringraziamento. Attraverso l’espediente del Salmo attribuito al sovrano, la preghiera di Ezechia disvela il cuore del re e la sua relazione sincera con il Signore, aprendosi alla fiducia anche nel tempo della crisi personale causata dalla malattia. I primi versetti del Cantico mostrano il dramma dal punto di vista di Ezechia (Is 38,10-15). La situazione si ribalta a partire dai vv. 17-19, che sono una confessione della guarigione interiore e una lode a Dio. Il testo termina al v. 20 con una nuova richiesta di salvezza. I vv. 21-22, che esamineremo in seguito, indicano come la preghiera venga inserita nella narrazione mentre la guarigione non è ancora avvenuta.
Il Salmo si muove su diverse tonalità affettive, anche contrapposte tra loro, passando gradualmente dal lamento alla lode, dalla lotta con Dio alla speranza nel Signore della vita. Così si rivela non soltanto la tensione nel cuore del sovrano, ma anche il sentimento di chi vive la drammatica esperienza della malattia sulla propria pelle, passando dalla paura alla speranza, dalla recriminazione al ringraziamento. Come ricorda Robert Alter, la poesia, attraverso la sua indeterminatezza storica, permette di valicare i confini della situazione concreta del passato per raggiungere la vita di chi legge in ogni luogo e in ogni tempo[9]. Le parole di Ezechia, dunque, sono le parole di ogni uomo che soffre nel tempo della sua malattia.
Preghiera e guarigione
Nella prima parte del Cantico, Ezechia afferma: 10«Io dicevo: “A metà dei miei giorni me ne vado, / sono trattenuto alle porte degli inferi / per il resto dei miei anni”. / 11Dicevo: “Non vedrò più il Signore / sulla terra dei viventi, / non guarderò più nessuno fra gli abitanti del mondo. / 12La mia dimora è stata divelta e gettata lontano da me, / come una tenda di pastori. / Come un tessitore hai arrotolato la mia vita, / mi hai tagliato dalla trama. / Dal giorno alla notte mi riduci all’estremo. / 13Io ho gridato fino al mattino. / Come un leone, / così egli stritola tutte le mie ossa. /Dal giorno alla notte mi riduci all’estremo. / 14Come una rondine io pigolo, / gemo come una colomba. / Sono stanchi i miei occhi di guardare in alto. / Signore, io sono oppresso: proteggimi”. / 15Che cosa dirò perché mi risponda, / poiché è lui che agisce? / Fuggirò per tutti i miei anni / nell’amarezza dell’anima mia» (Is 38,10-15).
«Ai vv. 10-11, attraverso la ripetizione della forma verbale ’āmartî (ho detto = ho pensato), si dischiude il mondo interiore dell’orante che sente vicina la fine»[10]. Il testo riferisce i pensieri e le riflessioni del re Ezechia come un monologo interiore che, nel tempo della malattia incurabile, si fa preghiera rivolta al Signore. Il sovrano percepisce la distanza incolmabile con Dio e con i viventi, mentre lui si avvia prematuramente verso lo sheol, il regno dei morti. L’io del re è presente mentre si lamenta apertamente con il Signore attraverso immagini che indicano la sua estrema debolezza e affanno.
Ezechia si descrive come tenda sradicata e strappata via, quasi scisso internamente; come filo reciso dall’ordito, separato dalla vita e dagli altri viventi; come una fragile rondine che pigola e come una colomba che geme. Nell’ora della prova e della malattia egli attribuisce a Dio la responsabilità della sofferenza che lo opprime e parla di sé attraverso immagini atroci e strazianti. Il Signore, d’altra parte, è descritto come colui che taglia il filo della vita dalla trama e come un leone feroce che stritola la preda con i suoi denti. Eppure, paradossalmente, Ezechia chiede aiuto proprio a quel Dio da cui si sente oppresso e schiacciato. In tal modo, al centro del Salmo si leva una supplica al Signore, che può agire ancora in favore del re: «Io sono oppresso: proteggimi» (v. 14); «Guariscimi e rendimi la vita» (v. 16).
La seconda parte del Cantico costituisce il ribaltamento delle sorti del sovrano, mentre Dio è celebrato da Ezechia come il Signore della vita: «16Il Signore è su di loro: essi vivranno. / Tutto ciò che è in loro / è vita del suo spirito. / Guariscimi e rendimi la vita. / 17Ecco, la mia amarezza si è trasformata in pace! / Tu hai preservato la mia vita / dalla fossa della distruzione, / perché ti sei gettato dietro le spalle / tutti i miei peccati. / 18Perché non sono gli inferi a renderti grazie, / né la morte a lodarti; / quelli che scendono nella fossa / non sperano nella tua fedeltà. / 19Il vivente, il vivente ti rende grazie, / come io faccio quest’oggi. / Il padre farà conoscere ai figli / la tua fedeltà. / 20Signore, vieni a salvarmi, / e noi canteremo con le nostre cetre / tutti i giorni della nostra vita, / nel tempio del Signore» (Is 38,16-20).
Innanzitutto, la guarigione di Ezechia è un risanamento del cuore che avviene attraverso la guarigione interiore dal peccato e il dono della pace, di quello shalom che è pienezza e fioritura di vita e sostituisce l’amarezza. La morte e gli inferi sono alle spalle (v. 18), mentre il re per due volte definisce se stesso come «il vivente» (v. 19)[11]. L’«oggi» della situazione personale di Ezechia rimanda all’«oggi» di colui che legge e che può far sua la preghiera del re, trasmettendola, assieme alla testimonianza della fedeltà di Dio, di generazione in generazione, di padre in figlio (v. 19).
In modo sorprendente, i versetti seguenti mostrano come il sovrano non sia ancora guarito. Egli chiede la salvezza per tornare a pregare e lodare Dio nel tempio (v. 20). Ezechia rende grazie al Signore, ma la sua salute non è ancora pienamente ristabilita, rimane in bilico tra il «già» e il «non ancora» di una liberazione che deve venire. Il fatto che il Salmo sia collocato prima della guarigione permette a ogni malato, in ogni luogo e in ogni tempo, di pregare con le parole di Ezechia, aprendosi a un orizzonte di speranza e di vita in cui «insieme» si potrà cantare «tutti i giorni» al Signore (v. 20).
C’è forse una contraddizione tra le due parti del poema, tra l’accusa rivolta a Dio e il ringraziamento per la vita ricevuta? Forse il re si mostra schizofrenico, scisso in se stesso? In realtà, quella che il testo di Isaia ci presenta è una preghiera sincera, in cui affiora anche la lotta con Dio davanti al mistero del male che tocca la propria carne e mette in pericolo la vita. Le parole di Ezechia esprimono la complessità della situazione interiore di colui che vive il tempo dell’angoscia, della sofferenza e della malattia. Per questo l’accusare e il lodare Dio non sono in contrapposizione tra loro.
La narrazione di Isaia 38 si chiude, da un lato, con il comando di Isaia di applicare un medicamento per curare il re e, dall’altro, con la richiesta di un segno da parte di Ezechia perché possa tornare nel tempio: «Isaia disse: “Si vada a prendere un impiastro di fichi e si applichi sulla ferita, così guarirà”. Ezechia disse: “Qual è il segno che salirò al tempio del Signore?”» (Is 38,21-22).
La guarigione di Ezechia non viene raccontata, ma la narrazione rimane come sospesa, terminando con una domanda a cui non segue una risposta. Questi versetti, che potrebbero sembrare fuori posto[12], in realtà fanno capire al lettore che Ezechia non è ancora guarito e si riallacciano alla caratterizzazione del sovrano pio, preoccupato di tornare a essere puro ritualmente per poter salire al tempio del Signore. La presenza di queste righe pone al centro degli interessi di Ezechia la preoccupazione di ritornare a pregare nel tempio del Signore piuttosto che quella di una guarigione fine a se stessa, poiché egli sa che solo in Dio può trovare la vita[13].
In che modo Gesù guarisce le malattie
Il Vangelo di Matteo presenta Gesù come Messia in parole e opere (Mt 4,23). In effetti, la sezione sulle attività di Gesù in Israele si apre con il lungo Discorso della montagna (Mt 5–7) e prosegue con il racconto della sua azione guaritrice (Mt 8)[14]. Davanti al mistero della malattia, il Vangelo ci mostra Gesù che guarisce i mali del mondo: purifica un lebbroso escluso dalla comunità a causa della malattia (Mt 8,1-4), risana il servo di un centurione con la forza della sua parola (Mt 8,5-13), guarisce la suocera di Simone che si trova a letto con la febbre (Mt 8,14-15) e, infine, libera gli indemoniati e risana «tutti» gli ammalati (Mt 8,16). L’evangelista commenta le guarigioni operate da Gesù con un passo del profeta Isaia: «Egli ha preso le nostre infermità e si è caricato delle sofferenze» (Mt 8,17).
Questo versetto cita il quarto canto del Servo del Signore, che parla della sofferenza del servo che «si è caricato delle nostre sofferenze e si è addossato i nostri dolori» (Is 53,4). Così rivela il senso profondo dell’opera che Gesù sta compiendo. In effetti, le guarigioni non avvengono in maniera magica, ma sono una liberazione dal male che, come precisa Paolo, è avvenuta «a caro prezzo» (1 Cor 6,20; 7,23). Gesù guarisce prendendo su di sé le malattie, portando sulle sue spalle il peso del male e anticipando nella sua azione guaritrice il mistero della Pasqua, cioè della sua vita donata e offerta sulla croce per la salvezza del mondo. Al dramma della malattia il Vangelo non risponde presentando un guaritore-taumaturgo fra i tanti che circolavano nella Palestina del I secolo, ma mostrando il mistero di Gesù, uomo-Dio, pienamente solidale nella sua carne con l’umanità ferita e proprio per questo capace di toccarla e di guarirla.
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Note
[1]. Il card. Gianfranco Ravasi spiega che il v. 4 del Sal 144 è una citazione libera del Sal 39,6-7.12: «Ecco, di pochi palmi hai fatto i miei giorni, è un nulla per te la durata della mia vita. Sì, è solo un soffio ogni uomo che vive. Sì, è come un’ombra l’uomo che passa […]. Sì, ogni uomo non è che un soffio» (G. Ravasi, Il libro dei Salmi, vol. III, Bologna, EDB, 1985, 904).
[2]. Anche Giobbe fa una citazione in forma di parodia della domanda: «Che cosa è l’uomo?», presente nei Salmi (Sal 8,5; 144,3), stravolgendone, però, il senso: «Che cosa è l’uomo perché tu lo consideri grande e a lui rivolga la tua attenzione e lo scruti ogni mattina e ad ogni istante lo metta alla prova?» (Gb 7,17-18). L’essere umano è reso grande da Dio perché possa essere oggetto del suo controllo ossessivo, al fine di punirlo meglio e di fargli del male.
[3]. Paolo usa l’immagine del «tesoro in vasi di creta» (2 Cor 4,7), richiamando per certi versi la realtà descritta in Gen 2,7.
[4]. In ebraico, per dire «malattia» e «male» si utilizza la stessa parola ra‘. Per un’ampia trattazione del tema, cfr D. Scaiola, «Male/Malattia», in R. Penna – G. Perego – G. Ravasi (eds), Temi teologici della Bibbia, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2010, 786-792.
[5]. Cfr anche Gb 4,17-20; 8,20; 11,11; 15,14-16; 22,4-9.
[6]. In particolare, cfr Gb 7,20; 9,29-31; 16,17-19 e i capitoli 29–31.
[7]. Sul Cantico di Ezechia, bisogna menzionare lo studio approfondito di M. L. Barré, The Lord Has Saved Me: A Study of the Psalm of Hezekiah (Isaiah 38: 9-20), Washington, Catholic Biblical Association of America, 2005.
[8]. La parola ebraica qui presente è miktab, che può essere tradotta con «scritto». Un’altra ipotesi legge miktam, un termine adoperato nell’intestazione di alcuni Salmi (Sal 16; 56–60), per indicarne la tipologia e, più precisamente, per fare riferimento ad alcuni aspetti musicali (cfr M. L. Barré, The Lord Has Saved Me…, cit., 252 s).
[9]. Cfr R. Alter, L’ arte della poesia biblica, Roma, Gregorian & Biblical Press, 2011, 222.
[10]. C. Termini, «La guarigione di Ezechia (Is 38)», in Parole di vita 44 (1999/3) 32.
[11]. La radice «vita/vivente» ricorre per ben sei volte nel Cantico di Ezechia.
[12]. Alcuni autori provano a ricollocare questi versetti, volendo armonizzarli con il testo parallelo di 2 Re 20 (cfr C. Jeremias, «Zu Jes 38:21f», in Vetus Testamentum 21 [1971/1] 104-111; L. Alonso Schökel – J. L. Sicre, I Profeti, Roma, Borla, 1984, 288; A. Mello, Isaia, Cinisello Balsamo [Mi], San Paolo, 2012, 261).
[13]. Greg Goswell spiega così l’effetto che suscita il far terminare il racconto con un interrogativo: «La domanda di Ezechia, per la quale nessuna risposta è imminente, […] serve a evidenziare il problema di salire alla casa del Signore e partecipare alla preghiera nel tempio» (G. Goswell, «The Literary Logic and Meaning of Isaiah 38», in Journal for the Study of the Old Testament 39 [2014/2] 185).
[14]. Cfr U. Luz, Matteo, vol. I, Brescia, Paideia, 2006, 279.