
Le donne dell'alba. Un commento di Giulio Michelini e Mariateresa Zattoni a Mc 16,1-8
Pubblichiamo di seguito un estratto dal libro "Gesù in relazione", scritto da Mariateresa Zattoni e Giulio Michelini (Queriniana, Brescia 2021). E auguriamo a tutti una santa Pasqua col Signore Risorto.
Vangelo secondo Marco (16,1-8)
1Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a ungerlo. 2Di buon mattino, il primo giorno della settimana, vennero al sepolcro al levare del sole. 3Dicevano tra loro: «Chi ci farà rotolare via la pietra dall’ingresso del sepolcro?». 4Alzando lo sguardo, osservarono che la pietra era già stata fatta rotolare, benché fosse molto grande. 5Entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. 6Ma egli disse loro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto. 7Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”». 8Esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite (Mc 16,1-8).
Commento di Mariateresa Zattoni
I quattro evangelisti (maschi) mentre annunciano la risurrezione, fanno un bel regalo alle donne; tutti e quattro le presentano come prime testimoni. Gli esegeti sono d’accordo nel dire che se avessero voluto “inventarsi” la risurrezione, non avrebbero scelto certo le donne perché – nel clima culturale dell’Antico Vicino Oriente – le donne non erano abilitate a testimoniare: sulla loro parola, nulla poteva essere dichiarato vero; anzi: di fronte ad una testimonianza così poco credibile molti, anche tra i discepoli, parlano di “vaneggiamenti”, cioè di “straparlare” tipico delle donne. E dunque il fatto che siano loro (lo vedremo meglio in dettaglio) a trovare il sepolcro vuoto ci dice che questo è un fatto che non possono essersi inventato.
Gli evangelisti devono annunciare la risurrezione di un corpo sepolto; non una rianimazione, ma un evento che nessun umano poteva immaginare, per quanto Gesù – riportano i vangeli – lo avesse loro preannunciato. Nessuno è, o può essere, testimone in diretta della risurrezione. L’unica “diretta” è una tomba vuota. Non può esserci una cronaca, cioè la ripresa di un evento che sta accadendo; a parte che anche noi contemporanei così patiti delle “diretta”, siamo sufficientemente smaliziati per sapere che con la diretta (le angolature, gli ingrandimenti, ecc.) possiamo far dire alla realtà esattamente ciò che vogliamo che dica.
Ma gli evangelisti – culturalmente – non conoscono la cronaca, sono spiazzati da un annuncio («È risorto»; «È vivo») a cui loro stessi faticano a credere. L’annuncio viene dalla certezza della fede e dalla passione del Risorto che le ha provate tutte perché loro credessero che lui è vivo: quaranta giorni di pazienza infinita per educarli alla sua risurrezione; è a dire: il Risorto ci sta ancora educando alla sua vita da Risorto!
Tentiamo ora di esplorare il significato della presenza delle donne presso la tomba vuota. Che cosa ci dice questa presenza femminile? In tutti e quattro i vangeli le donne attendono l’alba del terzo giorno. Spiano le prime luci nel cielo per potersi muovere, cariche di olii e di aromi.
Le donne sono esperte dell’attesa: lui, l’amato, era stato sepolto in fretta e furia, non c’era stato il tempo di curare il corpo (lavarlo, purificarlo, ungerlo, profumarlo). Gli uomini l’avevano soltanto fasciato con le bende, e coperto il volto con un sudario: l’indispensabile. Era stato messo in un sepolcro nuovo – grazie alla generosità di Giuseppe d’Arimatea – scavato nella roccia; messo in orizzontale, come si usava, e chiusa la grotta con una grossa pietra. Era tutto quello che potevano fare, dato l’avvicinarsi della sera del sabato. Le donne avevano visto tutto.
E poi era passato il sabato, un lunghissimo sabato: in quel giorno, come diceva la Legge, non potevano fare nulla. E loro aspettavano l’alba del primo giorno dopo il sabato, come si aspetta la luce. Le donne sanno attendere: lo insegna loro la vita; per nove mesi l’embrione che ha preso posto nel loro utero cresce e cresce. Per una donna l’attesa non è mai “vuota”, un semplice passare di minuti, ore, giorni. Loro “parlano” nell’attesa: piano piano, dolcemente, praticano un dialogo, uno stupefacente “stare assieme”. Chissà come, le donne della risurrezione hanno immaginato l’incontro con il corpo amato: come lo laveremo, lo ungeremo, lo accarezzeremo. Le donne sono esperte di una attesa “piena”.
Ma sono anche esperte dell’”inutile”. Gli uomini si attestano sull’utile, sul fattibile, sul senso. Un uomo avrebbe detto: “Ma perché vi date tanto da fare? Ormai è morto, è cadavere: che cosa può interessare a un cadavere ormai rigido essere unto e profumato? Ma lasciate stare! Non c’è niente da fare, non l’avete ancora capito?”. Loro, le donne, sanno benissimo che non serve a niente. Ma questo non le ferma. Sanno che un atto d’amore non serve a niente, è a perdere.
Attesa, gesti inutili, gesti d’amore: le donne sono esperte della cura. Anche quando potrebbero farne a meno, anche quando non ricevono un grazie, persino quando sono non capite o criticate. Per questo gli evangelisti ce le donano come “donne dell’alba”.
Ma ciò che non sono pronte ad affrontare è la tomba vuota: il corpo amato non c’è più. Lì sono smarrite, incredule, impotenti. È un’assenza che non possono sopportare. Anche quando lo dicono ai fratelli, ai discepoli, possono solo provare ad interpretare: «L’hanno portato via». Non reggono quel vuoto. Troppo inumano. Troppo devastante.
Hanno bisogno di una voce che dica il nuovo, talmente nuovo da non essere nemmeno immaginato. Sono soccorse da una presenza che annuncia l’impensabile: «Non è qui, è risorto» (e questa, se vogliamo, è una delle prove che la risurrezione non è stata fabbricata dalla mente umana).
Ciascun evangelista narra in modo proprio questo annuncio trasmesso e non pensato.
Il primo evangelista è Marco (16,1-8) che nomina tre donne: Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Salome. Esse comprano oli aromatici e si recano al sepolcro “al levar del sole”, per dire la fretta, il desiderio, l’attesa. Ma sanno che ci sarà un ostacolo: «Chi ci farà rotolare via la pietra dall’ingresso del sepolcro?» (Mc 16,3). Sono donne realiste, sanno di avere poche forze: evidentemente il masso verticale a chiusura del sepolcro è un vero ostacolo, loro tre non ce la fanno, lo sanno bene. Per incontrare il cadavere hanno preparato tutto, con tutto il loro amore, però sanno che hanno bisogno di aiuto, di muscoli maschili. Evidentemente, tutto si aspettano salvo che un sepolcro vuoto.
Ma, arrivate, la prima sorpresa: la pietra è già stata fatta rotolare! Immaginiamo lo shock, il cumulo di domande che si stanno facendo... e così entrano nella grotta e trovano l’inaspettato: un giovane seduto, vestito con una veste bianca. Non capiscono, hanno paura. Ma il giovane le raggiunge con un annuncio sconvolgente, «È risorto, non è qui» (Mc 16,6), e con l’ordine di andare a dire ai discepoli e a Pietro che egli li precede in Galilea, cioè là dove tutto ha avuto inizio. E loro che fanno? Sono troppo spaventate, sembra che loro stesse non osino crederci e pare sappiano fin troppo bene che non saranno credute. Come si fa ad annunciare una cosa così incredibile, loro donne così incapaci di testimoniare? E non dicono niente a nessuno (cf. Mc 16,8), semplicemente scappano. E questa strana conclusione fa fede di almeno due cose: queste donne sono impreparate ad affrontare ciò che non si aspettano: una tomba vuota e una presenza che annuncia l’impensabile; il loro amato non è semplicemente sparito, sottratto, nascosto: è vivo! E dà perfino appuntamenti: c’è un luogo dove sarà visto. E noi ringraziamo la debolezza e il realismo di queste donne, così vicine a noi, che pure abbiamo ancora titubanza e paura a credere al Risorto.
Il secondo vangelo è quello di Matteo (28,1-9), per il quale le donne sono diventate due: due Marie che vanno al sepolcro. Alcuni fatti ora si svolgono sotto i loro occhi, come un terremoto segno-simbolo di sconvolgimento. E vedono, a occhi spalancati e intimoriti: è un angelo che rotola la pietra del sepolcro e vi siede sopra, come a prenderne possesso da testimone: è indiscutibilmente divino; non poteva essere guardato, perché «il suo aspetto era come folgore e il suo vestito bianco come neve» (Mt 28,3), segno di eternità celeste. E sono talmente annichilite nel loro spavento, che l’angelo ordina loro di non temere e fa quasi da guida, le conduce dentro perché si rendano conto, guardino il luogo dove era stato deposto. E anche per loro c’è il comando di andare a dare l’annuncio ai discepoli. E mentre loro partono, è Gesù che viene loro incontro e ribadisce il comando: «Andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno» (Mt 28,10). È proprio il Risorto che dà loro la forza dell’annuncio, impensabile. Impensabile anche per quel tenero nome che il Risorto pronuncia: «i miei fratelli», proprio quelli che l’hanno abbandonato. Il testo matteano in questa scena dell’alba introduce anche la presenza del picchetto di guardia alla tomba, guardie non solo impaurite, ma corrotte; tralasciamo l’episodio, e torniamo alle due Marie, per ringraziarle del loro coraggio.
Il terzo vangelo è quello di Luca (24,1-11): qui le donne che preparano aromi e oli profumati sono molte: tre nominate (Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e in più Giovanna) insieme ad altre, che avevano osservato la sepoltura da lontano. Un gruppo di donne, una piccola comunità solidale, nel prendersi cura del corpo amato. Anche loro trovano che «la pietra era stata rimossa» (Lc 24,2), anche loro con i loro doni entrano nel sepolcro e vengono sopraffatte dall’ignoto: il corpo di Gesù non c’è! Anche loro hanno bisogno di presenze celesti («due uomini in abito sfolgorante»; Lc 24,4) per cominciare a pensare l’impensabile.
Non osano guardare, tengono «il volto chinato a terra» (Lc 24,5), e le raggiunge un quasi-rimprovero gioioso: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?» (Lc 24,5). E anche loro ricevono l’ordine di annunciarlo agli apostoli. E queste donne in gruppo, quasi a farsi coraggio a vicenda, andarono da loro, ma «quelle parole parvero a loro come un vaneggiamento e non credevano ad esse» (Lc 24,11). Donne non credute, perché ciò che affermano è davvero impensabile. E noi le ringraziamo per non essersi tirate indietro.
Il quarto vangelo è quello di Giovanni (20,1-17): e qui siamo di fronte all’avventura di una donna sola: Maria di Magdala, già nominata come una sorta di costante negli altri tre vangeli. Qui gli eventi si fanno sempre più significativi: anche lei si muove verso il sepolcro, il primo giorno della settimana, «quando ancora era buio» (Gv 20,1), nota Giovanni, esperto in allusioni simboliche: era infatti ancora buio nel cuore di questa donna che cerca un cadavere. Anche lei è davanti a un fatto sconvolgente: la pietra tolta e il sepolcro vuoto. È una notizia che non può tenere per sé, è come se qualcuno la prendesse alla gola, non può resistere, corre a dirlo a «Simon Pietro e all’altro discepolo, quello che Gesù amava» (Gv 20,2) e dà un annuncio che è già una desolata interpretazione, come se non ci fosse altro modo per capire questa notizia sconvolgente: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto» (Gv 20,2): non è più un fatto umilmente consegnato (la tomba è vuota) ma un disperante sapere. Proprio come facciamo noi, quando crediamo di sapere già tutto e non lasciamo la porta aperta a nessuna domanda.
E allora i due discepoli corrono al sepolcro e constatano che è vero, lui non c’è, anche se vedono alcune stranezze, come quella del sudario piegato a parte. Ma «se ne tornarono di nuovo a casa» (Gv 20,10), forse si portano via domande, paura, incapacità di reagire o forse bisogno di consultarsi. Ma lei no, non ritorna a casa: «Maria invece stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva» (Gv 20,11). Chissà perché. Forse non si vuole arrendere, forse non ha rinunciato alla speranza di trovare il corpo. Anche per lei ci sono due angeli che questa volta si interessano proprio a lei: «Donna, perché piangi?» (Gv 20,13). E lei ribadisce la sua notizia che è un grumo di già saputo, un grumo che non si può sciogliere: «Hanno portato via il mio Signore» (Gv 20,13). Pare avere l’esclusiva, con quel «mio» e quel dolore che non si scioglie. E anche quando uno sconosciuto – che lei scambia per giardiniere – le pone la stessa domanda: «Donna perché piangi?» (Gv 20,15), lei azzarda il tutto per tutto, diventa quasi sfacciata: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo» (Gv 20,15). È la lingua della disperazione, è una visione ormai offuscata, che noi donne conosciamo bene, quando un dolore che non conosciamo neppure ci prende alla gola: cerchiamo perfino improbabili colpevoli, pur di respirare. Ma ormai suona – finalmente – quel timbro inconfondibile che la chiama per nome: «Maria!» (Gv 20,16).
E crollano tutte le sue certezze dolorose, le sue interpretazioni sconfortate. E lei non sa più niente: lei sa solo che è lì, è lì vivo. L’ultima cosa che si aspettava: non c’è, ma è vivo. Ha vinto la morte. Non posso abbracciarlo, toccarlo, trattenerlo. Eppure c’è, ho sentito la sua voce inconfondibile. E così anche lei riceve un ordine: «Va’ dai miei fratelli e dì loro “Salgo al Padre mio e Padre vostro…”» (Gv 20,17). E riceve la più bella notizia che si possa immaginare, proprio dalla voce del Risorto: il Padre “mio” non è più un’esclusiva, è diventato il Padre «vostro», di voi abbracciati, amati e perdonati per tutti i vostri abbandoni. E noi ringraziamo questa donna che con la sua testardaggine ci ha fatto incontrare il Risorto, che ci regala al suo Padre.
La nostra analisi ci ha portato a riconoscere i tratti dei comportamenti femminili presso la tomba vuota. Ci resta ora da rilevare una costante: le donne, sbalordite dall’annuncio di angeli, hanno bisogno di rivolgersi al maschile cioè ai fratelli. La loro parola non è richiudibile nel linguaggio tra donne, non è richiudibile in se stessa: le donne non parlano tra loro come affare privato. La loro parola non è autoreferenziale, non è autosufficiente: è rivolta agli uomini. E non importa se gli uomini capiranno o no, non importa se saranno credute o no: il dialogo non è fine a se stesso. È vero, dietro c’è il comando degli angeli, «Andate… dite...» (cf. Mt 28,7), ma esse paiono saperlo quasi di istinto: perché la loro parola acquisti significato, deve raggiungere l’altro: il padre, il fratello, lo sposo.
Una parola che non raggiunge l’altro – il maschile – è non-parola; una parola che pretende di essere capita è sottilmente violenta.
Commento di Giulio Michelini
Il presente commento esegetico ai racconti evangelici della risurrezione di Gesù vuole essere un esempio di come le scienze bibliche non diano nulla per scontato e siano chiamate a indagare non solo il significato del testo, ma anche come questo venga trasmesso e letto, pregato, accolto dalle varie comunità nella storia.
Già a riguardo delle ultime parole di Gesù secondo Luca (vedi sopra, cap. 5, «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno») abbiamo notato che alcune pagine della Bibbia sono state lette nella storia in versioni leggermente diverse: ora affrontiamo un problema di traduzione del testo originale greco.
Ci soffermeremo solo su un dettaglio – anche perché Mariateresa Zattoni ha fornito un quadro sufficientemente ampio delle complesse differenze tra i racconti evangelici della risurrezione – quello riguardante un particolare che solo Matteo ci fornisce, ovvero la ragione per cui le donne vanno alla tomba. Secondo Mt 28,1, vanno infatti per «vedere»o anche, se si vuole (e meglio), «a osservare» (e, dunque, non a «visitare», come si legge nella versione CEI) il sepolcro. L’importanza del dettaglio è legata al fatto che se le donne partono quando è ancora sabato, come spiegheremo ora, allora è ovvio che vige per loro la proibizione di portare qualsiasi oggetto, compresi gli olii per l’unzione di cui parlano gli altri vangeli.
Il punto centrale del nostro ragionamento sta nella grammatica della frase di questo versetto, nella difficoltà di tradurlo, e nelle testimonianze dei padri della Chiesa. Iniziamo dai padri, da uno degli esegeti dell’antichità, quel traduttore e interprete della Bibbia che fu san Girolamo. In una lettera che il Dalmata scrive nel 407 alla figlia di un noto retore, Edibia, che gli aveva presentato tante discordanze nei vangeli (come quella tra la versione di Matteo e quella di Marco, dove in Mc 16,9 si legge che Gesù è risuscitato «il mattino del giorno dopo il sabato»), scrive: «Tu vuoi sapere, anzitutto, come mai Matteo riferisce che il Signore è risorto la sera del sabato, all’alba del primo giorno della settimana, mentre Marco afferma che è risorto il mattino del giorno seguente […]. Questo problema lo si può risolvere in due modi. Ti spiego: o non accettiamo questa testimonianza di Marco, in quanto è riportata da rare copie del suo Vangelo, ma soprattutto per il motivo che il suo racconto sembra diverso e in contrasto con quello degli altri evangelisti; oppure dobbiamo rispondere che tutti e due hanno detto il vero, in quanto Matteo avrebbe indicato il momento in cui il Signore è risorto, e cioè la sera del sabato, mentre Marco avrebbe indicato il momento in cui Maria Maddalena lo vide, e cioè il mattino del primo giorno della settimana»[1].
Continua Girolamo nella sua lettera a Edibia: «Ritengo che l’evangelista Matteo, che ha scritto il suo Vangelo in ebraico, abbia detto probabilmente sul tardi, e non la sera; e che sia stato il traduttore a farsi ingannare dell’ambiguità del vocabolo, traducendo non sul tardi, ma la sera».
La questione è indubbiamente complicata, ma anche solo a partire da questo accenno si capisce che si dovrebbe rivalutare la posizione originale di Matteo, rispetto ai racconti degli altri vangeli, e che punta al sabato sera. È a questo livello che si può comprendere lo strano dettaglio delle donne che in questo vangelo, come accennato, non vanno a ungere un corpo ma a «vedere»la tomba del Signore.
A questa interpretazione sembra accordarsi anche la testimonianza del Vangelo di Pietro (9,35), che diversamente dai vangeli canonici si interessa anche della descrizione della risurrezione di Gesù: nell’apocrifo la risurrezione avviene di notte e anche lì non si parla dell’alba della domenica, ma della notte inoltrata del sabato, quando già nasce la domenica.
Forse il giudeo-cristiano Matteo, sottolineando il fatto che è ancora sabato quando le donne partono per il sepolcro – e senza togliere nulla al significato del «primo giorno dopo il sabato»che diventerà nella tradizione cristiana il “giorno del Signore” (quello delle apparizioni del Risorto) – Matteo, dicevamo, vuole in questo modo ribadire il valore perenne dello Shabbat come vertice della creazione (il settimo giorno) e giorno dell’incontro con Dio. In ogni caso, la visione di Matteo non può essere dismessa facilmente, e nemmeno assimilata a quella degli altri racconti pasquali: si deve accettare cioè che le versioni dei racconti della tomba vuota siano differenti, come Girolamo aveva osservato. Un insegnamento per tutti, contro letture fondamentaliste e troppo facili soluzioni.
[1] Epistola a Edibia, CXX, 4, 114-115; traduzione da: San Girolamo, Le lettere. Introduzione, traduzione, note e indici di Silvano Cola, Vol. 4, Lettere CXVII-CLVII, Città Nuova Editrice, Roma 1997, 114-115. Cf., per un commento più articolato a tutta la questione, G. Michelini, Matteo. Introduzione, traduzione, commento, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2013, 460-461.