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"Lasciate che i bambini vengano a me" (Mc 10.14). Il testo biblico per la Giornata nazionale di preghiera per le vittime e i sopravvissuti agli abusi

10/11/2025

In occasione della preghiera dei Vespri presieduta da Mons. Ivan Maffeis (Arcivescovo di Perugia) che si terrà il 18 novembre 2025 a Santa Maria degli Angeli, presso la Basilica della Porziuncola, alle ore 19.15, quando la Chiesa Italiana, con tutti i Vescovi, si troverà a far memoria delle vittime degli abusi, pubblichiamo volentieri il testo della riflessione biblica dedicato a questo giorno.

Il testo si può scaricare in formato PDF e libretto dal sito del Servizio Nazionale CEI al seguente indirizzo: https://tutelaminori.chiesacattolica.it/rispetto-generare-relazioni-autentiche-v-giornata-nazionale-di-preghiera/

«Lasciate che i bambini vengano a me» (Mc 10,14)

La vulnerabilità, condizione umana

L’aggettivo “vulnerabile” secondo il vocabolario Treccani deriva dal latino vulnerabĭlis, a sua volta dal verbo vulnerare, «ferire». Si intende con questa parola ciò che può essere attaccato, leso o danneggiato. Una persona vulnerabile è – sempre secondo il vocabolario Treccani – una persona «debole, eccessivamente sensibile, fragile». 

L’esistenza dell’uomo, nella Bibbia, viene proprio descritta come fragile e vulnerabile. Ecco il Salmo 103,15-16: «L’uomo: come l’erba sono i suoi giorni! Come un fiore di campo, così egli fiorisce. Se un vento lo investe, non è più, né più lo riconosce la sua dimora». Queste parole anticipano la moderna definizione di “vulnerabilità”, ovvero «la condizione antropologica-esistenziale e situazionale di ogni persona umana in quanto predisposta a poter essere attaccata, ferita, offesa, uccisa»[1].

Ci si può domandare in quale senso tale fragilità sia costitutiva, cioè presente dall’inizio, nella sorte dell’uomo, oppure venga vista come la conseguenza di quella che nel libro della Genesi è descritta come una caduta, l’atto di una disobbedienza nei confronti del Dio creatore. Un punto di riferimento per tale questione si trova nel libro della Sapienza, quando si legge che «Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura. Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono» (Sap 2,23-24).

Secondo l’autore di questo libro l’uomo era incorruttibile, non doveva morire, ma a causa dell’invidia è invece stato sottoposto a quella che possiamo definire l’estrema vulnerabilità, ovvero la morte. Tale visione non si trova solo nelle Scritture ebraiche (o in quelle cristiane, come in Rm 5,12), e, anzi, a parere di alcuni potrebbe derivare dalle dottrine dello Zoroastrismo: in questa religione il mondo era visto come perfetto, ma «una volta introdotte nel mondo la morte e la distruzione, l’immortalità cessò per le creature, ed è stata sostituita dagli inevitabili processi di nascita e morte»[2].

Se la fragilità che riassume tutte le vulnerabilità dell’esperienza umana è quella della mortalità, tale condizione viene poi declinata dalla Scrittura in tante diverse forme: quelle delle malattie, di tipo fisico (pensiamo alle storie di lebbrosi nella Bibbia, come quella di Naaman il Siro; cf. 2Re 5,1-19) o psichico (come quella del re Saul, affetto da una grave forma di bipolarismo; cf., ad es., 1Sam 16,14-23), quella della vedovanza e dell’anzianità, quella della sterilità, che tocca tante coppie di cui si legge nella Scrittura, e, ancora, quella della povertà (causata, per esempio, dalle ingiustizie oppure dalle tante carestie di cui si legge anche nel libro della Genesi), e – molto attuale oggi – la fragilità dei migranti(che pur essendo in uno stato temporaneo di vulnerabilità[3] possono diventare, soprattutto se arrivati come clandestini, facili prede; si veda, nella Bibbia, il caso della moabita Rut che emigra a Betlemme e a cui è dedicato l’omonimo libro). Non si devono poi dimenticare quegli abusi verso persone vulnerabili da parte di chi, con autorità, riveste un particolare ruolo, e avendo, proprio per la natura asimmetrica del rapporto, un «maggior potere – sia per le caratteristiche individuali e personali, sia per la posizione che occupa – lo usa male, per soddisfare bisogni e interessi personali»[4]. Anche questi abusi sono documentati nella Bibbia: in Genesi 39, la moglie di Potifar, sfruttando la sua posizione alla corte del Faraone, tenta di sedurre Giuseppe; in 2Samuele 11–12, Davide, abusando del suo potere, giace con Betsabea, moglie di Uria, che poi farà morire proditoriamente; infine, nel libro di Ester, una giovane ebrea in esilio viene condotta al cospetto del re di Persia, insieme ad altre fanciulle, per consolarlo dopo il ripudio della regina Vasti.

La storia della salvezza con uomini e donne vulnerabili

Se la vulnerabilità accomuna ogni uomo e ogni donna, il Dio della Bibbia è un Dio che non la svaluta, non ne abusa, ma sceglie di agire attraverso di essa. Dopo la caduta, e con la redenzione portata dal Cristo, la fragilità non è più vista come un male, bensì come una condizione che Dio rispetta e su cui fa leva. È il Dio di Israele e di Gesù Cristo, colui che – come canta Maria nel Magnificat (cf. Lc 1,46-55) – “innalza gli umili” e libera il suo popolo, piccolo e marginale, dalla schiavitù egiziana. È lo stesso Dio che accoglie l’estrema debolezza del proprio Figlio, che assume la condizione umana fino a conoscerne la vulnerabilità più profonda: la morte.

Una caratteristica peculiare degli “eroi” biblici è proprio la loro vulnerabilità e fragilità, che emergono già nelle storie delle prime pagine della Bibbia; pensiamo ad Abramo e a Sara, anziani e sterili quando viene loro annunciata la nascita di Isacco; a Mosè balbuziente che, nonostante ciò, è inviato a parlare al Faraone; a Saul, il primo re di Israele, di cui si è detto; a Davide, il minore della famiglia, il meno adatto a guidare una nazione; a Ester, che pur obbligata a stare con il re di Persia salverà il suo popolo dallo sterminio. Sembra che questi “eroi” siano stati scelti per la loro condizione di debolezza, e ciò è particolarmente evidente nelle storie dei Giudici di Israele, i protagonisti di uno snodo importante nella storia del popolo ebraico, quello del passaggio dalle anfizionie (leghe di tribù alleate, discendenti da un eroe eponimo, Giacobbe-Israele) alla monarchia. 

Nelle storie di questi capi-tribù, i Giudici, emerge chiaramente una dimensione di fragilità che riflette la condizione stessa di Israele, il popolo di Dio, che è così meschino quando dimentica Dio e adora gli idoli, ma è anche grande quando ritorna a gridare al Signore. Per esempio: Gedeone non si distingue per coraggio, Iefte è figlio di una prostituta, Sansone è attratto da donne straniere, e Debora, essendo donna, sembra la meno adatta a imprese militari... Tuttavia, le vicende di questi Giudici non sono mai semplicemente “abbandonate” alla loro narrazione, come se di per se stesse fossero portatrici di significato: quelle storie sono piuttosto lette e interpretate in una visione di fede che trova in esse non solo una storia di vulnerabilità o di fallimenti, ma anche una storia di Dio, quella cioè che il Signore intreccia con le vite degli uomini. 

Tutto ciò emerge anche nell’interpretazione che dei Giudici viene dalla Lettera agli Ebrei. Trattando della fede, l’anonimo autore sacro (in quella che è un’omelia della fine del primo secolo d.C.), scrive:

E che dirò ancora? Mi mancherebbe il tempo se volessi narrare di Gedeone, di Barak, di Sansone, di Iefte, di Davide, di Samuele e dei profeti; per fede, essi conquistarono regni, esercitarono la giustizia, ottennero ciò che era stato promesso, chiusero le fauci dei leoni, spensero la violenza del fuoco, sfuggirono alla lama della spada, trassero vigore dalla debolezza, divennero forti in guerra, respinsero invasioni di stranieri (Eb 11,32-34).

La forza di questi uomini e di queste donne in guerra, e la capacità di respingere i nemici, sono effettivamente le imprese narrate nel libro dei Giudici: i protagonisti del libro sono riusciti a liberare Israele, di volta in volta, dai popoli che li opprimevano e vessavano; ma è la loro vulnerabilità, dalla quale essi «trassero la forza», la caratteristica più interessante che li connota, quella che il lettore non si aspetterebbe mai di trovare in coloro che vengono portati come esempi di fede per Israele. L’idea che dalla vulnerabilità si possa trare vigore ricorda, poi, una frase dal “Cantico” di Anna, la madre del profeta Samuele, «i deboli si sono rivestiti di vigore» (1Sam 2,4), e spiega bene la dinamica che si può ravvisare nella storia di questi protagonisti della storia biblica. La loro situazione infatti «cambiò radicalmente, da deboli a forti, e fu proprio la loro debolezza a dotarli di forza, arricchendone il loro patrimonio personale»[5]. L’idea di una debolezza e di una fragilità che diventano punto di forza, infine, richiama anche le parole dell’apostolo Paolo: «quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). 

Ma se Dio è in grado di ribaltare in risorsa la condizione di vulnerabilità della persona umana, e ancor di più dei protagonisti della storia di Israele, gli uomini sono capaci di fare altrettanto? 

La vulnerabilità abusata

Purtroppo, proprio per il fatto che la vulnerabilità è lo stato in cui un individuo è più esposto a danni, sia fisici che emotivi, a causa di fattori intrinseci o situazioni esterne, è evidente che le persone vulnerabili possano essere vittime di vari tipi di abusi. Con ciò vogliamo subito chiarire che puntando l’attenzione sulla vulnerabilità delle vittime non abbiamo inteso in alcun modo svalutare le dinamiche e i contesti che possono favorire l’abuso[6], e di cui diremo più sotto.

Se infatti ritorniamo ora alla Bibbia – che non parla solo di Dio ma descrive anche la condizione umana in tanti suoi aspetti – ci accorgiamo che in essa si tratta anche della vulnerabilità sfruttata da coloro che abusano di un potere per controllare, ferire o danneggiare altre persone. Sono diversi gli esempi che si potrebbero ricordare, riguardanti abusi su anziani, donne, disabili e, ovviamente, bambini. Possiamo velocemente ricordare almeno alcune situazioni. 

Nel libro della Genesi, il patriarca Isacco (che da bambino aveva già vissuto la drammatica esperienza della sua “legatura”[7]), ormai cecuziente, viene ingannato dal figlio Giacobbe, che dimostra di essere un vero e proprio trickster abusante della disabilità del padre (Gen 27,1-45).

Sempre nell’Antico Testamento si trovano storie di violenze sessuali ai danni di donne, come quella dell’abuso perpetrato da due anziani nei confronti dell’innocente Susanna, accusata di adulterio e salvata poi dalla morte solo grazie all’intervento di un giovinetto, Daniele (Dan 13) e il caso, ancor più tragico, di una donna di Betlemme, che perde la vita dopo uno stupro collettivo compiuto da uomini iniqui (Gdc 19). Un’altra giovane donna, poi, non deve essere dimenticata, la figlia di Iefte, uno dei Giudici che libera sì la sua tribù dall’oppressione degli Ammoniti, ma poi “sacrifica” (si discute se in senso letterale, o simbolico[8]) la propria figlia, a causa di un voto sconsiderato da lui compiuto. 

Nei quattro vangeli si possono individuare diversi episodi di violenza, emarginazione o ingiustizie subiti da singoli o da gruppi vulnerabili, episodi che, letti oggi, possono essere interpretati alla luce di dinamiche di abuso di potere, oppressione o sfruttamento. Tra diversi esempi possibili possiamo ricordare quello riguardante Bartimeo, un uomo cieco, di Gerico, che vorrebbe incontrare Gesù, lo chiama per strada ma viene rimproverato da molti, perché stia zitto e non gridi. Gesù, invece – proprio come farà con i bambini, di cui diremo tra poco – chiede che quell’uomo si avvicini, gli parla e gli restituisce la vista (cf. Mc 10,46-52).

Una violenza antica contro i bambini

Dai soprusi e dagli abusi non vengono risparmiati nemmeno i bambini[9], che tra tutti gli esseri umani sono indubbiamente i più vulnerabili. Per quanto riguarda la storia di Israele, la ricerca biblica si è soffermata sui sacrifici di bambini nel Vicino Oriente Antico, confrontando i testi della Bibbia con quelli delle culture attorno a Israele, in particolare su un rito che comportava l’offerta alla divinità del proprio figlio[10]. La Bibbia condanna ripetutamente tale pratica, come si legge nella stessa Torà (Lv 18,21: «Non consegnerai alcuno dei tuoi figli per farlo passare a Moloc e non profanerai il nome del tuo Dio. Io sono il Signore») o nell’appello di Geremia, che rimprovera i «figli di Giuda» per aver in qualche tempo compiuti gli stessi abomini: «Hanno costruito le alture di Tofet nella valle di Ben-Innòm, per bruciare nel fuoco i loro figli e le loro figlie, cosa che io non avevo mai comandato e che non avevo mai pensato» (Ger 7,31).

Non stupisce, allora, che secoli dopo – questa volta sotto l’egida di un regno periferico dell’Impero Romano, quello di Erode – possa essere stata compiuta una “strage” di “bambini innocenti”, dalla quale scamperà miracolosamente solo il piccolo Gesù (cf. Mt 2,12-18). 

Rimanendo ancora ai racconti evangelici, fortemente abusivo è il comportamento degli adulti che approfittano di una giovane donna, la figlia di Erodiade (cf. Mt 14,1-12; chiamata Salomè, secondo le notizie di Giuseppe Flavio), «una ragazza dell’alta società, che danza davanti agli ospiti come una “danzatrice a pagamento”, che di solito si presumeva fosse disponibile per rapporti sessuali. Questo trattamento riservato alla ragazza insinua persino che sia vittima di abusi da parte del suo patrigno»[11]: se la madre, Erodiade, è la prima responsabile di questa violenza, il patrigno, Erode Antipa, non sembra tanto diverso dal suo crudele padre, Erode il Grande.

La buona notizia per le persone vulnerabili e i bambini

Nonostante le pagine più oscure della Scrittura, come quelle che raccontano violenze e abusi verso i bambini e le persone vulnerabili, la Bibbia non si ritrae dal mostrarne la crudeltà. Tuttavia, proprio in mezzo a questa realtà dolorosa, essa osa annunciare una buona notizia: una promessa di speranza rivolta agli ultimi e ai piccoli. Il profeta Isaia, ad esempio, descrive un tempo messianico in cui i ciechi vedranno, i sordi udranno, i muti parleranno e gli zoppi cammineranno (cf. Is 35,5-6): il corpo ferito sarà guarito e la dignità ritrovata. E ancora, proprio un bambino diventa centro di questa speranza escatologica: «La vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele» (Is 7,14). Dio si rende vicino attraverso i piccoli.

Se ora guardiamo con più attenzione al Nuovo Testamento, ci accorgiamo che nelle narrazioni evangeliche i bambini sono particolarmente presenti: sia i Vangeli di Matteo (1–2) che di Luca (1–2) contengono i racconti dell’infanzia, che ci forniscono un resoconto non solo del concepimento e della nascita di Gesù, ma anche di Giovanni Battista; in particolare, la scena di Gesù dodicenne al Tempio di Gerusalemme è uno dei pochi casi in cui un bambino parla nel Nuovo Testamento (Lc 2,48).

Ma ben più significativo è l’atteggiamento dell’adulto Gesù, che – come è detto varie volte nei vangeli – rispetta i bambini, si prende cura di loro e li guarisce[12]. Noi ci concentriamo solo su una pagina, quella di Gesù che accoglie i bambini, li abbraccia e li benedice.

«Lasciate che i bambini vengano a me»

Abbiamo visto sopra che Gesù a Gerico si è preso cura di un cieco, Bartimeo, quando la gente della città voleva impedirgli di avvicinarsi a lui. Una situazione analoga si era già presentata, prima che Gesù arrivasse in quella città, e questa volta con dei bambini. Si legge, nella versione più lunga dell’episodio, quella che si trova in Mc 10,13-16 (cf. Mt 19,13-15):

Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.

Questa pagina è importante per diversi ordini di motivi. Lo stesso contesto in cui ha luogo l’incontro tra Gesù e i bambini è significativo. Poco prima Gesù era stato interpellato dai farisei circa il suo insegnamento a riguardo del ripudio della propria sposa, previsto nella Legge di Mosè (cf. Dt 24,1-4), e il Signore aveva risposto loro che il marito e la moglie «non sono più due, ma una sola carne» (Mc 10,8), pronunciandosi così contro la divisione della coppia. Questa volta invece sono i discepoli di Gesù che creano una divisione. Essi, rimproverando quelli che portavano i bambini a Gesù, impediscono loro di avvicinarsi a lui. Sembra quasi esserci un collegamento tra la questione sul divorzio e la scena presente: per capire la Legge di Dio e metterla in pratica, anche quella sul matrimonio, e per comprendere l’insegnamento sul Regno, bisognerà tornare a essere bambini e fidarsi della Parola originaria di Dio.

Se poi confrontiamo il vangelo di Marco con quello di Matteo, ci accorgiamo che prima di questa scena i due evangelisti avevano già mostrato un gesto di affetto di Gesù verso i bambini (Mc 9,33-37 e Mt 18,1-8): solo il Gesù di Matteo, però, dice che per entrare nel regno dei cieli bisogna diventare come loro, cioè come quelli (minorenni, inferiori a dodici anni) che nelle concezioni del tempo non avevano ancora «sviluppato la capacità di pensare e di giudicare in modo indipendente e che si distinguevano per la loro ignoranza e immaturità»[13]. Comprendiamo allora lo sdegno di Gesù contro i discepoli: «L’indignazione di Gesù e la sua affermazione che “a quelli come loro appartiene il Regno di Dio” significano non solo che i bambini sono inclusi nel Regno di Dio, ma anche che rappresentano il tipo di persona specialmente associata al regno di Dio»[14].

Ecco, allora, che Gesù contro chi vuole allontanare da lui i bambini reagisce con delle parole e con dei gesti: chiede ai discepoli di non impedire che i bambini gli si avvicinino, e poi li accoglie, prendendoli tra le braccia e benedicendoli.

Non sappiamo perché i discepoli rimproverassero quei bambini: forse pensavano che stessero infastidendo il Maestro. La situazione (oltre all’episodio di Bartimeo, di cui si è detto) è analoga a quella registrata in un aneddoto riguardante un famoso rabbino del secondo secolo d.C., rabbi Aqiba. Dopo essere stato lontano dalla moglie molti anni per studiare la Torà, Aqiba torna a casa, ormai ritenuto un grande rabbi, con migliaia di discepoli. Gli viene incontro la sua sposa, uno dei discepoli vuole respingerla, ma il rabbi lo rimprovera e gli dice «Lasciala stare, la mia conoscenza della Torà e la tua la dobbiamo a lei»[15]: alla moglie, cioè, che non conosceva la Legge ma aveva permesso a suo marito di studiarla…

Allontanare i bambini da Gesù è un abuso

Vi è anche un’altra spiegazione al rimprovero che Gesù rivolge ai discepoli, che soprattutto nel vangelo di Marco sono spesso rappresentanti come inadeguati e, qui, «mentre compiono un abuso di autorità»[16]: «probabilmente proprio la contrapposizione con l’atteggiamento che stanno mostrando i discepoli (il voler prevalere, il non accogliere) porta a considerare il bambino come colui che è disposto a rifiutare ogni logica di dominio»[17].

Se ne deduce che i discepoli che credono di rispettare Gesù e non vogliono che sia disturbato dai bambini, mancano di rispetto verso questi “piccoli”, esercitando verso di essi proprio un indebito potere.

Anche in chi commette abusi verso i minori o verso le persone vulnerabili, si ritrova un analogo esercizio indiscriminato di un dominio che di fatto porta – se questi abusi sono compiuti all’interno della Chiesa – ad allontanare le vittime da Gesù. 

Come Gesù: rispettare, accogliere e benedire

Gesù, invece, rimprovera i discepoli, difende i bambini, li abbraccia e li benedice. 

In questi suoi gesti non solo si rivede l’amore di un padre che benedice i propri figli o i figli dei figli (come Giacobbe che abbraccia i figli di Giuseppe, li benedice e impone su di loro le mani; cf. Gen 48,8-20), oppure il gesto affettuoso di una madre[18], ma anche e soprattutto un gesto terapeutico, efficace. Come è stato osservato, «l’imposizione delle mani è sia un gesto di guarigione sia la manifestazione di piena fiducia nella persona (il gesto viene utilizzato spesso per indicare la trasmissione di un incarico)»[19]. Era una pratica estremamente diffusa in Israele: «molto spesso membri delle autorità religiose, sacerdoti, insegnanti della Legge, capi della sinagoga imponevano le mani sulla testa dei bambini, un gesto che sopravvive fino ad oggi come benedizione sacerdotale cristiana»[20].

La comunità cristiana è chiamata a seguire l’esempio di Gesù e a proseguire l’opera avviata dai primi cristiani nei confronti delle persone vulnerabili. Le ricerche recenti[21] sulla condizione infantile nel mondo antico evidenziano un dato significativo: la nascita e la diffusione del cristianesimo contribuirono a un generale miglioramento della vita dei bambini, riconosciuti sempre più come esseri umani dotati di dignità propria.

L’atteggiamento di Gesù verso i più piccoli dovrebbe ispirare tutti coloro che vengono a conoscenza di casi di abuso: nella logica del Regno, sono chiamati ad accogliere le vittime, a invocare su di loro l’aiuto di Dio, e a favorire un percorso di guarigione e liberazione dal male subito.


[1] C. Corbella, «Abusi: status quaestionis», in F. Ceragioli – C. Corbella (edd.), Abusi nella Chiesa. Un approccio interdisciplinare, Ancora, Milano 2025, 11-58; 15. Per un approfondimento di questi temi si può vedere anche V. Paglia, La forza della fragilità, Laterza, Bari 2022.

[2] D. Winston, The Wisdom of Solomon. A New Translation with Introduction and Commentary, Yale University Press, New Haven – London 2008, 122.

[3] Per una descrizione delle categorie vulnerabili in modo temporaneo si veda G. Vittigni, «Creare una cultura della prevenzione e della cura delle persone vulnerabili», in F. Ceragioli – C. Corbella (edd.), Abusi nella Chiesa, cit., 59-80; 69.

[4] Ivi, 71.

[5] C. Marcheselli-Casale, Lettera agli Ebrei, Paoline, Milano 2005, 534.

[6] Cf. C. Corbella, «Abusi: status quaestionis», cit., 15.

[7] Mentre nella tradizione cristiana per il brano di Gen 22,1-19 si parla di “sacrificio” di Isacco, in quella ebraica si preferisce parlare di “legatura” di Isacco, a partire dal verbo al v. 9: «legò suo figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna».

[8] Di un sacrificio solo simbolico parla, ad es., RaDak, rav David Kimhi (1160-1235); cf. anche D. Marcus, Jephthah and his Vow, Texas Tech Press, Lubbock, TX 1986.

[9] Su come la vulnerabilità dei bambini è vista nella Bibbia cf. J. Faith Parker, Valuable and Vulnerable. Children in the Hebrew Bible. Especially the Elisha Cycle, Brown Judaic Studies, Providence, RI 2013.

[10] Cf. W. Flynn (ed.), Children in the Bible and the Ancient World. Comparative and Historical Methods in Reading Ancient Children, Routledge, London – New York 2019.

[11] S. Betsworth, Children in Early Christian Narratives, Bloomsbury, London – New Delhi 2015, 87.

[12] Sarebbero tante le situazioni da ricordare, per le quali rimandiamo a: A. Gulotta – M.C. Marazzi, Gesù e i bambini. Letture spirituali dell’infanzia e dell’adolescenza, Morcelliana, Brescia 2025 e A.L. Allen, «Children in the New Testament», Currents in Biblical Research 22 (2024) 189-229.

[13] V. Tzerpos, «Gesù e la sua relazione con i bambini e i giovani nel vangelo secondo Matteo», in L. Bianchi – G. Spirito (edd.), I giovani e la Chiesa, Edizioni San Leopoldo, Padova 2024, 92-107, 95.

[14] A. Yarbro Collins, Vangelo di Marco, 2, Paideia, Torino 2019, 763.

[15] Talmud babilonese, Nedarim 50a.

[16] W.L. Lane, The Gospel According to Mark, Eerdmans, Grand Rapids, MI – Cambridge, 1974, 359.

[17] P. Mascilongo, Il vangelo di Marco. Commento esegetico e teologico, Città Nuova, Roma 2018, 577.

[18] Gesto che secondo A. Romaldo, Gesù e i bambini. Riflessioni teologiche e antropologiche sul gesto dell’abbraccio nella Bibbia, Cantagalli, Siena 2007, rompe barriere sociali e religiose, perché avviene verso soggetti considerati insignificanti.

[19] G. Perego, Marco. Introduzione, traduzione e commento, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2011,208.

[20] V. Tzerpos, «Gesù e la sua relazione con i bambini», cit., 98.

[21] C.B. Horn – J.W. Martens, “Let the little children come to me”. Childhood and Children in Early Christianity, The Catholic University of America Press, Washington, DC 2009.

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