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La tomba "aperta". Commento al vangelo della Veglia Pasquale (Mc 16,1-7)

Le letture della Veglia Pasquale danno la possibilità di compiere un lungo percorso – si legge nell’Ammonizione che le introduce – che va dall’«antica alleanza» alla «pienezza dei tempi», quando «Dio ha mandato a noi il suo Figlio come redentore» (Messale Romano, III ed., p. 177). Noi ci soffermiamo sull’ultima lettura, che si comprende a partire da tutte le pagine della Bibbia scritte prima di questa, ma che a sua volta restituisce un senso diverso a tutte le altre, perché è dal Vangelo che viene la novità della risurrezione di Gesù.

Il vangelo di quest’anno liturgico, tratto da Marco, presenta alcune caratteristiche proprie. Se però rivediamo anche alcuni altri dettagli – condivisi con i racconti della “tomba vuota” dagli altri racconti – cogliamo diversi elementi che saranno certamente di aiuto per la nostra vita.

Il primo elemento

L’ultimo capitolo di Marco inizia con le donne che vanno alla tomba dove era stato deposto Gesù. Non sappiamo nulla di quello che è successo il giorno prima, come Gesù sia risorto, cosa è accaduto in quello spazio di tempo che Marco racchiude in una frase subordinata, di minore importanza, con un genitivo assoluto, nell’espressione «passato il sabato» (Mc 16,1). «Si salta tutta la giornata di sabato. Silenzio su questo sabato. Nessuna azione da parte degli uomini e nessun avvenimento da riferire da parte di Marco» (B. Standaert, Marco. Vangelo di una notte, vangelo per la vita, p. 869). Saranno altri scritti del Nuovo Testamento – anzitutto la Prima lettera di Pietro (3,19: «E [Gesù] nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere») ad approfondire quello che Marco non dice.

Ma Gesù aveva parlato del sabato (e di quel sabato), dicendo che il Figlio dell’uomo è signore di quel giorno, e che in quel giorno – proprio in quello – è possibile fare il bene e salvare una vita (cf. Mc 2,27-28). Per questa ragione l’evangelista Matteo esplorerà ulteriormente questa dimensione, arrivando a dire che Gesù è risorto quando era ancora sabato. Il giudeocristiano Matteo, sottolineando il fatto che è ancora sabato quando le donne partono per il sepolcro – e senza togliere nulla al significato del «primo giorno dopo il sabato» che diventerà nella tradizione cristiana il “giorno del Signore”, quello delle apparizioni del Risorto – voleva probabilmente ribadire il valore perenne dello Shabbat come vertice della creazione e giorno dell’incontro con Dio. Le due versioni, quella di Marco e di Matteo, però, a questo punto, appaiono inconciliabili, come san Girolamo aveva ben notato. In una sua lettera – che cita la “finale lunga” di Marco, il v. 16,9, dove si legge che Gesù è risuscitato il mattino del giorno dopo il sabato – illustra il motivo che avrebbe portato i due evangelisti a dare resoconti diversi a riguardo: «Tu vuoi sapere [scrive a Edibia], anzitutto, come mai Matteo riferisce che il Signore è risorto la sera del sabato, all’alba del primo giorno della settimana, mentre Marco afferma che è risorto il mattino del giorno seguente […]. Questo problema lo si può risolvere in due modi. Ti spiego: o non accettiamo questa testimonianza di Marco, in quanto è riportata da rare copie del suo Vangelo, ma soprattutto per il motivo che il suo racconto sembra diverso e in contrasto con quello degli altri evangelisti; oppure dobbiamo rispondere che tutti e due hanno detto il vero, in quanto Matteo avrebbe indicato il momento in cui il Signore è risorto, e cioè la sera del sabato, mentre Marco avrebbe indicato il momento in cui Maria Maddalena lo vide, e cioè il mattino del primo giorno della settimana» (Epistola a Edibia, CXX, 4, 114-115; cf. G. Michelini, Matteo. Introduzione, traduzione, commento, p. 461).

La conclusione di questo ragionamento, sul sabato appena trascorso, ha due conseguenze. Da una parte ci porta a doverci arrendere: di fronte a quanto accaduto nel segreto della vita e della morte di Gesù, possiamo solo tacere, perché non abbiamo la vista sufficientemente acuta per comprendere quello che comprenderemo e vedremo solo quando i nostri occhi si riapriranno. Ma dall’altra parte questo elemento ci fa riscoprire che Dio è fedele: con la risurrezione del Figlio, Dio porta fino in fondo, e al suo compimento, quello che aveva fatto in origine, “benedicendo” e “santificando” lo Shabbat (cf. Gen 2,3), rendendolo il vertice della sua creazione. Dio che – si legge nel vangelo di Giovanni – «agisce anche ora» (cioè, di sabato; Gv 5,17) non può lasciare nella morte il Crocifisso, proprio in quel giorno!

Il secondo elemento,

su cui ci soffermiamo molto più brevemente, ma che è comunque fondamentale, riguarda quello che stanno per fare le donne, appena «passato il sabato». Si muovono per un morto, e – in questo ci rappresentano – vogliono conservarlo così, morto, come hanno notato alcuni commentatori: «Le donne vanno in gran fretta per ungere il corpo. Ciò significa che vogliono conservarlo nella morte, rallentando il processo di decomposizione, ma anche certamente mantenerlo nell’universo della morte» (Standaert, Marco, p. 871).

Ancora un’altra volta, e questa volta di fronte alla morte, dobbiamo ammettere che ci si può solo fermare. Il nostro sguardo, di nuovo, non riesce a vedere oltre e spesso non vuole vedere oltre: come lo sguardo di quelle donne, è chiuso di fronte a un sepolcro. Solo la fede e la speranza permettono di “pensare oltre” oltre la morte.

Già da alcuni dettagli dei racconti dei vangeli, però, si capisce che la morte non è l’ultima parola. È vero, né Marco né alcun altro vangelo raccontano la risurrezione come tale. Non si può sapere cosa è accaduto, perché nessuno ha visto nulla, e ciò differisce notevolmente rispetto ai vangeli apocrifi, nei quali, come in uno dei più antichi, il Vangelo di Pietro, addirittura si mostra il Cristo uscire vivo dalla tomba. La risurrezione è fuori da ogni osservazione “storica”, ma è in qualche modo suggerita dagli evangelisti, attraverso il dettaglio della luce: le donne vanno al sepolcro, si legge in Mc 16,2, «al levar del sole», e con ciò si lascia intravvedere che «la risurrezione è già avvenuta» (Standaert, Marco, p. 874): solo, manca qualcuno che ne dia l’annuncio.

Terzo elemento

Per ricevere l’annuncio – ed è il terzo elemento su cui ci soffermiamo – le donne devono entrare nel sepolcro: non possono rimanere fuori. Entrano, cioè, in un luogo per definizione chiuso, una stanza chiusa, come, a guardar bene, era chiusa «la grande sala al piano superiore» (Mc 14,15) del cenacolo, e sono chiusi i luoghi in cui siamo trovati in questi lunghi mesi di pandemia per il Covid. Ha scritto in una lettera agli amici il prof. Massimo Grilli della Pontificia Università Gregoriana: «Nella vita reale, come in quella virtuale delle conferenze on line a cui partecipiamo, le stanze sono diventate pressoché indispensabili. Eppure, ci deve essere un senso: se non possiamo guardare il cielo stando sulla strada o in una notte stellata, dobbiamo guardarlo da una stanza: è il punto in cui siamo. Ecco la percezione che abbiamo: siamo in una stanza dove possiamo tutto e niente. È da questa stanza, nostro rifugio e nostro niente, che dobbiamo rinascere e guardare il futuro».

E, infatti, da questo luogo chiuso – solo da questa prospettiva apparentemente senza via di uscita – si riceve l’annuncio che è risorto, ed è il quarto particolare. Dentro il sepolcro le donne incontrano il neanískos, un giovane che ora è rivestito (mentre prima era descritto nel suo fuggire “nudo” dal Getsemani; cf. Mc 14,51-52), e si trova in una postura serena, aperta, interlocutoria, come quella dell’angelo che si lascia trovare seduto, sotto un terebinto, da Gedeone, impaurito dai Madianiti che vogliono rubargli il grano appena raccolto, e che per questa ragione egli batteva di nascosto in un frantoio (cf. Gdc 6,11). Quell’angelo non solo rassicura il futuro giudice di Israele, ma fa emergere da lui il meglio di sé – chiamandolo, lui che era terrorizzato dai Madianiti, «uomo forte e valoroso!» (6,12); soprattutto l’angelo svela, come un vero angelo interprete, il destino di Gedeone: «Va’ con questa tua forza e salva Israele dalla mano di Madian; non ti mando forse io?» (6,14).

Ora, al sepolcro tre donne vivono la stessa esperienza di tristezza e paura («ebbero paura»; Mc 16,5), al punto che il neanískos le rassicura («Non abbiate paura»; 16,6), e, svolgendo anch’egli una vera e propria funzione ermeneutica, le istruisce e le invia: “è risorto”… “andate”.

Il sepolcro “vuoto”, allora diventa aperto. Sottolinea Daniel Marguerat: «Preferisco parlare di sepolcro aperto piuttosto che vuoto. La simbologia del racconto non è legata al vuoto del sepolcro, ma al fatto che la pietra di chiusura è stata rotolata mentre il cadavere, impuro per definizione, doveva scomparire dal mondo dei vivi» (Gesù di Nazareth. Vita e destino, p. 211).

La conclusione di questa pagina, e di tutto il vangelo, è caratteristica di Marco. Le parole del neanískos non tolgono alle donne la paura – che, lo sappiamo, nel vangelo di Marco lasciano l’annuncio della risurrezione sospeso – ma almeno permettono loro di uscire, con la certezza che «se il sepolcro è stato aperto, miracolosamente, è perché Dio è all’opera per riabilitare la memoria di Gesù» (Marguerat, Gesù di Nazareth, p. 213): la loro stessa vita, in questo modo, viene riabilitata, e, così – preghiamo – può esserlo anche la nostra.

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