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La strage degli innocenti. Il commento di Papa Francesco e un approfondimento biblico esegetico

Papa Francesco, nella Lettera Apostolica Patris Corde (8 dicembre 2020) dedicata a San Giuseppe, si sofferma a lungo sulla pagina del vangelo di Matteo dedicata all’uccisione dei bambini di Betlemme.

Il commento del Papa

«Analogamente a ciò che Dio ha fatto con Maria, quando le ha manifestato il suo piano di salvezza, così anche a Giuseppe ha rivelato i suoi disegni; e lo ha fatto tramite i sogni, che nella Bibbia, come presso tutti i popoli antichi, venivano considerati come uno dei mezzi con i quali Dio manifesta la sua volontà (cfr Gen 20,3; 28,12; 31,11.24; 40,8; 41,1-32; Nm 12,6; 1 Sam 3,3-10; Dn 2; 4; Gb 33,15).

Giuseppe è fortemente angustiato davanti all’incomprensibile gravidanza di Maria: non vuole «accusarla pubblicamente» (in questi casi era prevista anche la lapidazione [cfr Dt 22,20-21]), ma decide di «ripudiarla in segreto» (Mt 1,19). Nel primo sogno l’angelo lo aiuta a risolvere il suo grave dilemma: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti, il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21). La sua risposta fu immediata: «Quando si destò dal sonno, fece come gli aveva ordinato l’angelo» (Mt 1,24). Con l’obbedienza egli superò il suo dramma e salvò Maria.

Nel secondo sogno l’angelo ordina a Giuseppe: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo» (Mt 2,13). Giuseppe non esitò ad obbedire, senza farsi domande sulle difficoltà cui sarebbe andato incontro: «Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode» (Mt 2,14-15).

In Egitto Giuseppe, con fiducia e pazienza, attese dall’angelo il promesso avviso per ritornare nel suo Paese. Appena il messaggero divino, in un terzo sogno, dopo averlo informato che erano morti quelli che cercavano di uccidere il bambino, gli ordina di alzarsi, di prendere con sé il bambino e sua madre e ritornare nella terra d’Israele (cfr Mt 2,19-20), egli ancora una volta obbedisce senza esitare: «Si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele» (Mt 2,21).

Ma durante il viaggio di ritorno, «quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno – ed è la quarta volta che accade – si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nazaret» (Mt 2,22-23)».

Approfondimenti

Come approfondimento, di seguito alcuni paragrafi tratti dal commento al Vangelo di Matteo di Giulio Michelini (Matteo. Introduzione, traduzione e commento, Nuova Versione della Bibbia dai Testi Antichi, edizioni San Paolo):

Vangelo dell’infanzia e passione. Nonostante la corretta interpretazione delle Scritture, né i sommi sacerdoti, né gli scribi (e tanto meno Erode) si muovono per andare a Betlemme: solo i maghi proseguono il loro viaggio. Il riunirsi dei sacerdoti e dei sapienti ha ricordato a qualcuno quanto accadrà alla fine del vangelo: lì, ancora una volta, sarà radunato un «sinedrio» (cfr. 5,22; 10,17) per giudicare Gesù (cfr. 26,59) e condannarlo a morte (con il motivo scritto sul suo capo «Gesù, il re dei Giudei», al modo in cui il bambino cercato dai maghi è «re dei Giudei», 2,2), con la complicità di Pilato, così come ora Erode vuole mettere a morte il bambino. I paralleli però finiscono qui, perché – differentemente da Marco (che subito, in 2,20, parla dello sposo che «sarà loro tolto via») e da Luca (nel cui vangelo dell’infanzia una nota tragica viene dalla profezia di Simeone a Maria) – in Matteo non sembra che il tema della passione, che in effetti è emerso con la prolessi di Mt 1,21 («salverà il suo popolo»), venga poi sviluppato dall’evangelista all’inizio del vangelo. La famiglia di Gesù, comunque, è in pericolo anche nel primo vangelo, e vive l’esperienza della migrazione forzata, verso l’Egitto, luogo di salvezza già per i patriarchi (Abramo, Giuseppe…), che però si manifesterà come luogo di schiavitù dove l’identità degli ebrei rischia di dissolversi: per questo il bambino deve essere richiamato dall’Egitto.

Un altro sogno. In Mt 2,12 si allude al secondo sogno del vangelo dell’infanzia di Matteo. I sogni sono fondamentali nel primo vangelo, e torneranno nel racconto della passione, in un momento cruciale, quello del processo di Gesù (cf. Mt 27,19). Luoghi della comunicazione con Dio per il mondo greco-romano, sono per l’Antico Testamento un modo per comprendere la sua volontà e le sue decisioni: secondo il libro di Giobbe, il sogno è un modo in cui Dio si rivela (Gb 33,14-16). Il sogno si presenta sempre come una forma debole di rivelazione, secondo quanto scritto in un midrash: «Ci sono tre sessantesimi [cioè “surrogati”]: il sessantesimo della morte è il sonno, il sessantesimo della profezia è il sogno, il sessantesimo del mondo avvenire è il sabato» (Bereshit Rabba 17,5; 44,7). Diversamente dai sogni presenti nelle varie leggende o nelle diverse letterature mondiali (si pensi al sogno della moglie di Giulio Cesare), Dio insieme al sogno dona anche la corretta interpretazione, al modo in cui aveva dato al patriarca Giuseppe e a Daniele il modo di decifrarli. Giuseppe e i maghi capiscono quanto devono fare, e nonostante la debolezza della comunicazione ricevuta, lo mettono in atto.

Mt 2,13-18 Il Messia come Mosè (la fuga in Egitto) e i sogni in Matteo

Tutti i sogni del racconto dell’infanzia sono necessari per salvare qualcuno. In 1,20-24 si dice come è “salvata” Maria, la cui vita deve essere preservata da una punizione per adulterio (secondo le prescrizioni di Dt 22,20-21), oppure, in ogni caso, dalla separazione dallo sposo. In 2,12 a essere salvati sono i maghi, che evitano così di tornare a Gerusalemme e incorrere nell’ira di Erode, da cui sono stati ingannati, ma che ora ripagano sfuggendo a lui (cfr. 2,16). In 2,13-14, finalmente, a essere salvato è Gesù, che viene portato in Egitto per sfuggire al re empio e assassino. In 2,19, col sogno che induce Giuseppe a lasciare la terra in cui si sono rifugiati, Gesù deve essere salvato dall’Egitto.

L’Egitto, inizialmente luogo di salvezza e speranza, può diventare – come lo è stato per Israele (secondo i commentatori ebrei in Egitto il popolo si era talmente assimilato da non distinguersi più dagli egiziani) – luogo della schiavitù e della perdita della propria identità. È dunque dall’Egitto che il Figlio è stato chiamato (cfr. 2,15), come Israele schiavo e liberato. Giuseppe però resiste contro quest’ultimo sogno, e ne è necessario un altro. Con 2,22 si ha l’ultimo sogno dei vangeli dell’infanzia, quello mediante il quale Giuseppe si convince, e arriva con Gesù e la madre in Galilea, libero dall’Egitto. In definitiva, se guardiamo bene tutte queste situazioni, a essere in pericolo è comunque sempre Gesù. Anche l’ultimo sogno del vangelo di Matteo, quello della moglie di Pilato (cfr. 27,19), avrà la stessa funzione: anche questa volta è Gesù a essere in pericolo, e il sogno potrebbe essere l’estremo tentativo (in quanto elemento, ancorché fragile, della rivelazione divina) per liberarlo dalla morte (vedi commento a 21,33-45). Ma questo sogno sarà l’unico a non essere ascoltato.

Rachele (2,18) è una delle madri di Israele, quella mediante la quale si completerà il numero delle tribù, col parto dell’ultimo eponimo, Beniamino (durante il quale perderà la vita). Da Matteo viene qui evocata grazie a una citazione dal profeta Geremia (cfr. Ger 31,15), il cui probabile sfondo storico originario era l’esilio delle tribù del nord deportate in Assiria: Matteo vede in quanto accade ai bambini di Betlemme e a Gesù il tragico ripetersi della sorte di tutto il suo popolo attraverso la figura della moglie di Giacobbe, per la quale era stata eretta una tomba «lungo la strada verso Efrata, cioè Betlemme» (Gen 35,19). I rabbini si chiederanno per quale ragione Giacobbe scelse per lei una tomba proprio in quel luogo, e risponderanno che lo fece perché aveva previsto che un giorno gli esiliati sarebbero passati per quella strada, e Rachele potesse piangere per i suoi figli e intercedere per loro (BerR a 35,19). Matteo immagina che la matriarca dal suo sepolcro si alzi in piedi e, assistendo alla morte dei piccoli di Betlemme, rinnovi il suo dolore per tutti gli ebrei. Il procedimento ermeneutico dell’evangelista è esemplare del suo modo di intendere il rapporto tra le cose antiche e quelle nuove (vedi commento a 13,51-52). Le parole pronunciate secoli prima da un profeta, Geremia, che si riferiva a un episodio ancora più remoto, narrato nella Genesi, hanno per Matteo un significato attuale, e illuminano la tragedia di Betlemme e la fuga della sacra famiglia. Questa però non deve temere, perché la custodia di Gesù non è affidata solo a Giuseppe e a Maria, ma anche alla materna intercessione di Rachele.

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