La passione di Cristo nell'arte (2): il nuovo volume di Micaela Soranzo
Volentieri diamo notizia dell'uscita in libreria del secondo volume della collana curata dall'Arch. Micaela Soranzo, L'arte racconta la Bibbia, dal titolo "La Passione". Di seguito ne riportiamo la Prefazione, di Giulio Michelini.
Il secondo volume della collana L’arte racconta la Bibbia – dopo quello sui vangeli delle origini – non poteva che occuparsi della passione: la vera origine dei vangeli, infatti, è piuttosto l’insieme degli eventi narrati alla fine dei quattro libri canonici, e che vanno dall’ingresso messianico di Gesù di Nazaret a Gerusalemme fino alla sua sepoltura.
A tale insieme, in verità, apparterrebbero anche le pagine riguardanti l’annuncio della risurrezione di Gesù Cristo, e i racconti delle apparizioni del Risorto. I più antichi resoconti riguardanti la morte di Gesù – che sono poi stati riversati in forma scritta (e che successivamente hanno anche subito un ulteriore processo di rioralizzazione) – terminavano con l’annuncio che il Christus patiens – o, meglio, tòn estaurōménon, cioè “il (quello) crocifisso” (Mc 16,6) – era risorto. Così, se si guarda indietro nella storia narrata dai vangeli sinottici, questo è detto anche nei tre annunci della passione, morte e risurrezione di Gesù: nel più antico annuncio ad essere attestato in forma scritta, quello di Marco, si legge che Gesù «cominciò a insegnare [ai suoi discepoli] che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere» (Mc 8,31). Qui, e negli annunci successivi, e in tutte le versioni sinottiche, passione–morte–risurrezione sono indissolubilmente legati, come i tre movimenti di una sonata o di un concerto.
È solo per evidenti e comprensibili ragioni editoriali, quindi, che passione di Gesù e racconti della sua risurrezione possono essere distinti, come con quest’opera di Micaela Soranzo, e quella che ad essa seguirà. La tavola su cui si sofferma l’architetto Soranzo nelle prime pagine del presente volume, la “Passione di Cristo” di Hans Memling, conosciuta anche come “La Passione di Torino”, illustra bene questo principio. Sulla stessa tela si trovano tutti gli eventi che vanno dall’ingresso messianico di Gesù fino all’ultima delle sue apparizioni ai discepoli: se al dipinto mancasse anche una sola delle scene lì rappresentate così minuziosamente, non si potrebbe dare alcun senso all’opera nel suo complesso, e non si troverebbe nemmeno un significato alle singole parti di quel dramma che va dalla passione di Gesù alla sua risurrezione. Senza passione non vi sarebbe Pasqua, senza Pasqua la passione sarebbe semplicemente il resoconto di una morte.
Il cuore della fede cristiana, o il suo principale kerygma, o “annuncio”, sta, così, nel fatto che Colui che è nato dal Padre è morto veramente, ed è risorto. Che il Cristo sia veramente morto è importante. Ho già avuto modo di notare (negli Esercizi Spirituali dettati nel 2017 a Papa Francesco e alla Curia Romana) come in un libro del 2010 dedicato alle Morti favolose degli antichi, l’autore, un filologo classico, Dino Baldi, tracciando alcune brevi biografie (o, meglio, “tanatografie”) attraverso i resoconti delle morti di personaggi storici distribuiti in varie categorie (morti di poeti; morti di atleti e pensatori; morti di re, condottieri, tiranni e imperatori, ecc.), abbia stranamente collocato quella di Gesù di Nazaret nella categoria dei “quasi morti, quasi vivi”, classificando la morte di Gesù tra i casi di morte apparente. Si tratta di una scelta assolutamente discutibile (ancorché basata su Celso, Basilide, e anche sul Corano): se davvero la morte di Gesù venisse considerata “apparente”, non solo la fede cristiana non starebbe più in piedi, ma di fatto sarebbe “apparente” tutta l’esistenza di Gesù di Nazaret. Non solo la sua morte, ma anche la sua vita ne risulterebbe una finzione. E, si deve precisare, il fatto che Gesù sia stato creduto ancora vivo dopo la sua crocifissione non rende affatto “apparente” quanto accaduto prima, ovvero la sua passione e morte.
L’arte pittorica, con la sua capacità espressiva che spesse volte può superare di gran lunga quella del racconto orale o scritto, impedisce di cadere in questo equivoco. Ecco così che le diverse opere presentate e analizzate magistralmente da Micaela Soranzo nel presente volume dicono che quanto è narrato dai vangeli è assolutamente reale, non è una fiction o un pio racconto. Per questo – scrive l’Autrice – «la crocifissione è il tema centrale dell’iconografia cristiana». Per questo, ancora, viene osservato da Soranzo, «la Crocifissione appare più frequentemente, sin dai primi secoli del cristianesimo, come raffigurazione isolata, secondo la formula breve dei Vangeli “lo crocifissero” o più raramente accanto alla scena della resurrezione». Isolata, per quanto possiamo comprendere, perché centrale.
L’arte pittorica però non solo distingue e isola – come con la scena della crocifissione – quello che ritiene determinante: in vari modi, confonde e unisce. Vogliamo dire che le quattro passioni canoniche (dei vangeli che la Chiesa ha riconosciuto autentici, senza così contare racconti antichi e importanti della passione di Gesù come il Vangelo di Pietro o il Vangelo di Nicodemo – con gli Atti di Pilato, ecc.) sono viste come un unico insieme. Non è così in origine, e infatti le quattro passioni di Matteo, Marco, Luca e Giovanni si distinguono in modo assolutamente chiaro.
Solo per fare un esempio, sul piano dei contenuti narrati, l’episodio del suicidio di Giuda è esclusivamente narrato nel Primo vangelo, come anche quello del lavaggio delle mani del prefetto romano Pilato, e altri episodi ancora. O, di nuovo, solo Marco scrive che durante l’arresto di Gesù nel Getsemani un neanískos, un giovinetto, fuggì lasciando tutto ciò che lo rivestiva pur di non farsi prendere (Mc 15,50-52). Solo Giovanni, ancora, vede Gesù rispondere alla domanda di coloro che sono venuti a prenderlo nell’Orto degli Ulivi con una frase, «Sono io!», che fa cadere a terra tutti i presenti (Gv 18,6), mostrando così che il Signore si consegna liberamente alla milizia templare.
Nella già ricordata “Passione Memling” avviene proprio questo: lo svolgersi degli episodi dei quattro vangeli attinge da tutte e quattro le passioni canoniche, e necessariamente confonde. Per esempio: l’ingresso messianico non è quello narrato da Matteo (che parla di due animali, mentre qui ne è raffigurato solo uno); l’episodio dell’Ultima cena ivi rappresentato deve essere stato attinto dal Quarto vangelo (l’unico che descriva il “discepolo amato” che si trova al fianco di Gesù; cf. Gv 13,23); e, come ultimo esempio, che il Risorto sia andato fino a Emmaus – come si evince da una delle scene narrate in alto a sinistra nel quadro di Torino – è scritto solo da Luca (cf. Lc 24,13-35).
Gli artisti poi sono andati anche molto al di là di quanto narravano i vangeli, e hanno attinto dagli apocrifi o dalle teologie ricorrenti. Ecco perché le testimonianze figurative sono anche un resoconto importante della storia dell’interpretazione di un testo. A tale riguardo, e in conclusione, ci soffermiamo su due particolari, ribadendo in tal modo la necessità di un’opera così importante come quella di Micaela Soranzo, che aiuterà a districarsi dentro le complicate questioni a cui abbiamo solo accennato.
Il primo particolare riguarda un commentario al Vangelo di Matteo scritto da un esegeta dell’Università di Berna, Ulrich Luz, tradotto anche in italiano (Matteo, Paideia Editrice). In questo libro, tra i migliori commenti scientifici al Primo vangelo, vi sono riprodotte anche varie opere d’arte, a testimonianza di come il testo del vangelo sia stato interpretato, e quali effetti ha prodotto (Wirkungsgeschichte): a dimostrazione che le pagine del vangelo arrivano al lettore già caricate di significati, che sono poi quelli dati dai lettori precedenti.
Ma, in questo modo, si deve anche ammettere che quanto compie l’artista è una interpretazione, che può essere giusta o forzata. Prendiamo come esempio la “Passione Antelami” del Duomo di Parma, su cui si sofferma anche Micaela Soranzo, non mancando di descrivere quanto accade sotto la croce, con la nota “Sinagoga bendata”: «Dalla parte opposta dell’Ecclesia c’è la Sinagoga, personificazione del mondo ebraico, cui l’arcangelo Raffaele fa chinare il capo in segno di sconfitta: il suo stendardo è spezzato e rovesciato, con la scritta “Sinagoga deponitur”; ella ha gli occhi chiusi perché “non vede e non crede”». La descrizione, precisa ed eloquente, non nasconde quella che è una delle interpretazioni più antigiudaiche dei vangeli, che tanto ha influito sulla coscienza dei cristiani.
Fortunatamente, dopo secoli ci siamo svincolati da tali visioni erronee, fino a poter leggere, in un documento prefato dall’allora card. Joseph Ratzinger, che «Non si deve dire che l’ebreo non vede ciò che era annunciato nei testi [delle profezie], ma che il cristiano, alla luce di Cristo e della Chiesa, scopre nei testi un di più di significato che vi era nascosto» (Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, 27 maggio 2001).
Ma le rappresentazioni pittoriche della passione del Signore, che il volume della Soranzo, così prezioso, ci permette di comprendere e conoscere meglio, contengono anche questo: non solo la storia delle sofferenze e della morte di Gesù, ma anche del modo in cui la teologia, la spiritualità – i nostri sguardi – si sono posti davanti a quello che, scriveva l’Autrice, è il cuore dell’iconografia cristiana.
Giulio Michelini