“Non temere! … Non piangere!” (Lc 5,1-11; 7,11-17). Gli imperativi della speranza
AUDIO e VIDEO dell’incontro Scarica MP3
Segue il testo della relazione che si può scaricare qui il pdf SZ, Al Settore Apostolato Biblico di Perugia sul ministero di Gesu` in Galilea (Lc 4,14-9,50)_2019
o leggere:
IL MINISTERO DI GESÙ IN GALILEA (Lc 4,14–9,50)
Non temere! … Non piangere!
Gli imperativi della speranza (Lc 5,1-11; 7,11-17)
Perugia, venerdì 25 gennaio 2019
Introduzione
Nel vostro ultimo appuntamento dell’11 gennaio, padre Giulio ha commentato, da par suo, la pagina di Lc 4,18-19, l’episodio di Gesù che nella sinagoga di Nazareth apre il rotolo del profeta Isaia e proclama il Giubileo:
lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore.
Dopo aver letto queste parole, l’evangelista ci dice che Gesù «riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette». Bene noi, pur rimanendo comodamente seduti, questa sera vogliamo simbolicamente srotolare il vangelo secondo Luca e proseguire nella lettura di alcune sue pagine.
Mi è stato chiesto di commentare «il ministero di Gesù in Galilea», un’ampia sezione che copre cinque capitoli del vangelo, da 4,14 a 9,50. Nei giorni scorsi stavo cercando di raccogliere qualche idea e mi sono venute in mente due immagini, decisamente poco bibliche, ma assai significative:
- un pullman di giapponesi;
- un prato fiorito.
Mentre stavo leggendo il testo improvvisamente mi è comparso davanti agli occhi un gruppo di giapponesi, armati di macchina fotografica che, scesi velocemente dal pullman su cui erano, si sono schierati davanti alla basilica di san Pietro in Vaticano, si sono fatti scattare una foto di gruppo dall’autista e poi sono risaliti con la stessa velocità con cui erano scesi, pronti per conquistare, a suon di click, un’altra importante città italiana per poi tornare a casa e raccontare, probabilmente sfogliando lo schermo di un computer, di aver visitato tutta l’Italia.
Stavo ancora cercando di trovare un senso a questa «visione», quando davanti ai miei occhi si è materializzata una seconda immagine: un grande prato pieno di fiori, uno più bello dell’altro. E c’era un omino vestito da frate che raccoglieva ogni fiore che vedeva, tanto che il mazzo che aveva tra le mani era enorme.
Siccome il mio analista di fiducia è in ferie fino a lunedì ho provato a capire cosa potessero significare queste due immagini e le ho lette come due rischi.
Il primo – legato ai giapponesi – è quello di voler commentare, in 60 minuti, tutto il cap. 4, tutto il cap. 5, tutto il cap. 6, tutto il cap. 7, tutto il cap. 8 e tutto il cap. 9 di Luca, così da tornare a casa e dire, a chi questa sera non è qui, che li abbiamo letti e capiti.
Il secondo rischio – rappresentato dal prato fiorito – è quello di voler raccogliere tutti i fiori del prato, cioè di voler leggere e commentare ogni riga dal cap. 4 al cap. 9, perché una riga è più bella dell’altra ed è un peccato non prenderle tutte.
Siccome non sono né un giapponese né un raccoglitore di fiori ossessivo-compulsivo, ho deciso di fare una scelta, arbitraria come la maggior parte delle scelte: questa sera mi limiterò a commentare solamente due brani del ministero di Gesù in Galilea. Il primo ha come protagonista un uomo, l’altro una donna.
- NON TEMERE!
Se leggiamo il cap. 4 di Luca ci accorgiamo immediatamente che Gesù agisce da solo e i discepoli non vengono nominati: l’evangelista concentra tutta l’attenzione su Gesù soltanto. Nella sinagoga di Nazareth egli espone il suo programma di evangelizzazione dei poveri: è venuto per annunciare un tempo di grazia del Signore (vv. 16-21). Gli uditori dapprima restano meravigliati (v. 22), poi si sdegnano e lo cacciano dal loro paese (vv. 28-29). Allora Gesù scende a Cafarnao, insegna (v. 31) e opera diversi miracoli: libera un indemoniato nella sinagoga (vv. 33-35), guarisce la suocera di Simone (vv. 38-39) e poi tutti gli ammalati che gli vengono portati (v. 40). Parte quindi da Cafarnao e annuncia il vangelo in diverse sinagoghe (v. 44). Fin qui il cap. 4.
All’inizio del cap. 5 Luca inserisce la chiamata dei primi discepoli e in particolare quella di Simon Pietro. È lui il primo personaggio sul quale questa sera vorrei soffermarmi.
Il testo (Lc 5,1-11)
1Mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, 2vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. 3Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. 4Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». 5Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». 6Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. 7Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. 8Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». 9Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; 10così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». 11E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.
Gesù proclama la parola di Dio (vv. 1-3)
La scena è dominata dalla persona di Gesù che sta ritto sulla riva del lago di Genesaret, mentre la folla gli fa ressa intorno. Gesù è al centro, ma non è il protagonista principale della scena, almeno per il momento. Vi faccio notare che Luca non dice: «la folla faceva ressa attorno a Gesù per ascoltarlo», ma dice invece che «la folla faceva ressa attorno a Gesù per ascoltare la parola di Dio». In questo modo l’evangelista mette subito in risalto che la protagonista principale in questo inizio di narrazione è la parola di Dio; è lei, la parola, che attira, che desta curiosità, che affascina la folla.
Oggi è ancora così? La parola di Dio attira, desta curiosità, affascina?
Io dico di sì, e voi ne siete la testimonianza. A parte i miei quattro amici che mi hanno accompagnato da Trento, voi non siete qui per me, ma siete qui per la parola di Dio; i protagonisti di questo vostro percorso in compagnia dell’evangelista Luca non sono i vari relatori che si passano il microfono, ma è la parola di Dio, che come ci ricorda la lettera agli Ebrei, «è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (4,12).
Gesù, schiacciato dalla folla, decide di scostarsi un poco da terra e di annunciare la parola di Dio – di insegnare, dice letteralmente il testo (v. 3) – dalla barca di Simone. Accostate alla sponda ci sono due barche e i pescatori dopo l’inutile pesca – il v. 5 ci dirà che durante l’ultima notte quegli uomini non hanno preso nulla – sono scesi a terra e stanno lavando le reti, chiaro segno che per quel giorno il loro lavoro era terminato, e le loro barche avrebbero ripreso la via del mare solo sul far della sera. E invece Gesù scardina i loro piani (quante volte lo fa anche con noi), vuole aver bisogno proprio di quelle barche, anzi della barca di Simone che diventerà la sua cattedra. Simone conosceva Gesù, perché Gesù era già entrato come ospite nella sua casa e gli aveva guarito la suocera, ma in questo momento Simone non fa parte di quella folla che fa ressa attorno a Gesù per ascoltare la parola di Dio. Quest’uomo non ha tempo da perdere per quelle cose, non ha tempo per andare a messa, lui è lì per lavorare e probabilmente è anche stanco per una notte di veglia e deluso per non aver preso niente. Probabilmente non vede l’ora di tornare a casa per riposare un po’. Ma Gesù lo coinvolge in un compito. In realtà lo fa in maniera poco educata e un po’ prepotente, dal momento che non chiede a Simone se per favore lo porta al largo, ma prima sale sulla barca e poi domanda e lo trasporta. Guardate il testo al v. 3: «[Gesù] salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra». Come se qualcuno prima entrasse in casa vostra e poi chiedesse permesso.
Se ci pensate bene Dio con noi ogni tanto si comporta così, in maniera apparentemente maleducata, perché in certe occasioni della nostra vita, Dio fa irruzione e da che mondo è mondo le irruzioni non si fanno bussando delicatamente e aspettando che qualcuno da dentro ti dica: «avanti!». Provate a pensare se quando Dio è entrato nella vostra vita ha sempre bussato gentilmente o magari, qualche volta, non è entrato un po’ prepotentemente?
Nel brano che stiamo analizzando è dunque Gesù che prende l’iniziativa di salire sulla barca di Simone. A me viene spontaneo pensare che questo pescatore, vedendo il Signore salire sulla sua barca, abbia rapidamente distolto lo sguardo dalle reti, se non altro per capire che cosa stesse accadendo. Come Simone lasciamoci anche noi distrarre da Gesù, non abbiamo paura di lasciare quello che stiamo facendo per portare la nostra attenzione su di lui che ogni tanto fra tutte le barche che ha a disposizione sceglie proprio la nostra piccola barca, preferendola a tante altre.
La pesca miracolosa (vv. 4-7)
Come abbiamo detto questo del cap. 5 non è il primo incontro tra questi due uomini, Simone aveva già incontrato Gesù nella sua casa, dove con una parola efficace aveva liberato la suocera dalla febbre (Lc 4,38-39). In quell’occasione però Simone era rimasto sullo sfondo. Qui invece viene interpellato direttamente da Gesù che gli dà un ordine piuttosto strano: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Queste parole, espresse con due verbi all’imperativo, probabilmente saranno sembrate senza senso a Simone, il quale sa benissimo che non si pesca di giorno, ma di notte: come si permette il figlio di un falegname di dare questo ordine a un pescatore professionista? Simone si rende conto che eseguire l’ordine di Gesù significava esporsi al rischio di essere preso in giro, di cadere nel ridicolo. Anche questa è una esperienza frequente per i discepoli di Gesù, quelli di ieri come quelli di oggi: obbedire alla sua parola chiede spesso di andare contro corrente, di andare contro la mentalità normale, espone al rischio di non venir capiti o addirittura derisi. E così, quasi per difendersi, quando Gesù gli ordina di andare al largo e di calare le reti per la pesca, Simone comprende subito la difficoltà di eseguire questo comando: «Maestro (epistata), abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla». Il termine che viene tradotto con «maestro» è epistatēs, vocabolo che letteralmente significa «colui che sta in alto, il preposto, il, responsabile, uno che è rivestito di autorità, il capo». È interessante che di solito questa parola in Luca si trovi sulla bocca dei discepoli e manifesti sempre una fede debole o un’intelligenza limitata (Lc 5,5; 8,24.45; 9,33.49). Qui, pronunciata da Simone, mostra come quest’uomo non abbia compreso del tutto chi sia veramente colui che gli ha dato quello strano ordine. Ma la cosa non deve né meravigliarci né stupirci; pensiamo alle volte in cui anche noi, come Simone ci rendiamo conto di non aver preso nulla, di aver faticato invano, di aver perso tempo, di aver sprecato occasioni importanti. E forse anche noi come Pietro ogni tanto non capiamo bene chi sia Gesù e lo consideriamo più un epistatēs, un capo a cui obbedire, che un maestro da cui imparare.
Il nostro testo ci mostra come Simone abbia un attimo di esitazione davanti a quell’ordine di Gesù che è contro ogni logica del buon senso, contro la sua esperienza, però immediatamente percepisce la forza della parola di Gesù e risponde: «ma sulla tua parola getterò le reti». Qui è in gioco la sua personale esperienza e responsabilità, e Simone si fida totalmente; non cede alla stanchezza, non teme di compiere un gesto ridicolo e butta la rete con fiducia, sicuro che nella parola di Gesù è presente la forza della parola di Dio. Nel racconto di Luca queste sono le prime parole di Simone e rappresentano il primo vero atto di fede da parte di un uomo nei confronti del Signore; Simone si fida.
La parola di Gesù si rivela efficace. Luca descrive ampiamente e quasi visualizza quella pesca eccezionale: c’è una grande quantità di pesci, le reti si spezzano, è necessario altro aiuto per caricare tutto il pesce, le barche vengono riempite fino all’orlo, sin quasi ad affondare. La parola di Gesù riempie le reti di pesci, ma perché è stata una parola che Simone ha preso sul serio, coinvolgendo anche i suoi compagni.
E noi ci fidiamo di Gesù? Ci fidiamo della parola di Dio? Riusciamo a coinvolgere altri nel cammino di fede?
La chiamata di Simone (vv. 8-10)
Dopo aver ascoltato la parola del Signore e dopo averne constatato la potenza, Simone prende coscienza della propria miseria, si stupisce del Signore. riconosce la sua condizione creaturale, reagisce come i personaggi biblici dell’Antico Testamento di fronte alla manifestazione potente di Dio, si prostra davanti al Signore ed esclama: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore». Simone riconosce di aver bisogno della misericordia,
Di nuovo Gesù di rivolge a Simone e gli dice: «Non temere». L’invito a non temere è frequente nella Bibbia, specialmente al momento della vocazione di una persona; più che un invito è un dono di Dio all’uomo chiamato, un dono senza il quale sarebbe impossibile accogliere e vivere la chiamata di Dio. Questo vale per Pietro come per ogni altro uomo su cui Dio pone la sua benevolenza in vista di un suo progetto. Ne vangelo secondo Luca l’invito a non temere è stato rivolto dall’angelo a Zaccaria (1,13), a Maria (1,30), ai pastori (2,10). Ora Gesù lo rivolge a Pietro.
Non sono uno a cui gli ordini piacciono particolarmente e gli imperativi di solito mi urtano abbastanza, eppure questo comando che Gesù dà a Simone, questo imperativo «non temere!» mi piace davvero tanto e mi riempie il cuore di serenità. Lo leggo come un imperativo della speranza, una parola forte che Gesù rivolge anche a me per dirmi che lui c’è, che è presente, che con lui al mio fianco non devo e non posso avere paura.
La speranza nasce proprio da qui, da questo comando a «non temere» e la speranza, lo sappiamo, non solo «è l’ultima a morire», ma è ciò che mantieni in vita, che dà e ridà forza, che rischiara l’orizzonte della vita quando questo orizzonte sembra sparire avvolto dalla nebbia della disperazione, della paura, delle lacrime, della morte.
Segue poi una parola di Gesù dal chiaro sapore profetico: «D’ora in poi sarai pescatore di uomini». Siamo a una svolta nella vita di Pietro, non solo per l’incontro che ha avuto con Gesù nella sua barca, non solo per il miracolo cui ha assistito e neppure solo perché ha capito il suo essere peccatore, ma soprattutto per ciò che lo attende, per la prospettiva che si apre davanti a lui, per la missione che lo impegnerà per sempre. L’espressione «d’ora in poi» (apo tou nyn) è frequente nel vangelo di Luca (cf. 1,48; 12,52; 22,18.69): con essa l’evangelista vuol dire che il compimento di quanto Gesù esprime incomincia a realizzarsi già ora, nel presente. Quelle di Gesù non sono solo parole che risuonano come una promessa futura, ma sono parole che si realizzano già nel presente.
L’essere pescatore di uomini è un’immagine che nei profeti (cf. Ger 16,16) normalmente si riferisce al giudizio di Dio, alla sua punizione; qui invece Luca adopera il verbo zōgreō, che ricorre diverse volte nell’Antico Testamento (cf. Nm 31,15.18; Dt 20,16; Gs 2,13; 6,25; 9,20; 2Sam 8,2; 2Cr 25,12; 2Mac 12,35). Esso contiene il termine zaō «vivere», e così il verbo assume il significato di «prendere vivo». Luca dà dunque un significato positivo e salvifico all’immagine di pescare gli uomini: d’ora in poi Simone trarrà gli uomini alla vita, contribuirà a salvare la loro vita.
Le parole di Gesù non sono prima di tutto un comando, ma sono un dono, una profezia che dichiara quale sarà d’ora in avanti la missione di Simone: egli abbandonerà il suo mestiere di pescatore per darsi totalmente alla pesca degli uomini.
L’inizio della missione (v. 11)
Al comando di Gesù, Simone risponde non con il rumore delle parole, ma con il silenzio dei fatti: «Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono». Come la pesca non era stata solitaria così la risposta di Simone alla parola di Gesù non è un fatto solitario: egli intraprende il cammino di discepolo assieme ai due compagni di pesca Giacomo e Giovanni. Questi tre lasciano tutto non per disprezzo verso il lavoro materiale, non per disinteresse verso le realtà create, non per fuggire impauriti dal mondo, ma per essere pienamente con Gesù, al suo ascolto e al suo servizio. Simone, Giacomo e Giovanni lasciano tutto ciò che costituiva la loro sicurezza riguardo al futuro, lasciano la protezione economica e creano il vuoto, per seguire Gesù. In lui hanno intuito che sta il loro tutto e perciò per lui decidono di lasciare tutto.
Per Luca questi tre pescatori rappresentano ciascuno di noi: sono scelti dal mare della storia non per venir sottratti al mondo, ma per un nuovo servizio nel mondo. Chi segue Gesù, anche oggi, non deve sottrarsi al mondo, non deve fuggire, rintanandosi per paura, ma deve rimanere nel mondo; questa è la vera sfida: essere nel mondo, ma non essere del mondo (cf. Gv 18,18-21).
NON PIANGERE!
Passiamo ora a un altro episodio presente all’interno della sezione che narra il ministero di Gesù in Galilea (4,14–9,50), il racconto della guarigione del figlio della vedova di Nain (5,11-17). Questo testo, che è presente unicamente nel vangelo secondo Luca, è una delle grandi pagine della bibbia. Nei vangeli ci sono altri racconti analoghi a questo: la risurrezione della figlia di Giairo, narrata da tutti i tre sinottici (Lc 8,40-56) e quella di Lazzaro narrata solo dall’evangelista Giovanni (Gv 11,1-44). Anche nell’Antico Testamento ci sono due pagine simili a quella di Luca: il profeta Elia ha ottenuto da Dio la risurrezione del figlio della donna vedova pagana che lo aveva accolto in casa (1Re 17,17-24) e il profeta Eliseo, dopo aver pregato, si è disteso sul figlio della Sunammita e lo ha richiamato alla vita (2Re 4,8-37).
Il testo (Lc 7,11-17)
11In seguito Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. 12Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. 13Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». 14Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». 15Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. 16Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». 17Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.
L’incontro di due cortei
Il racconto della risurrezione del figlio della vedova di Nain è inserito nella sezione che va da Lc 6,12 a 7,50 e che ha come personaggio centrale Gesù, il quale risulta potente in parole (Lc 6,12-49: il discorso della pianura) e in opere (Lc 7,1-50: ne vengono presentate tre in un crescendo: la guarigione del servo del centurione, la risurrezione del figlio della vedova, la remissione dei peccati della donna peccatrice). Il racconto è drammatico e ricco di attenzione verso la miseria umana; presenta, infatti, il problema fondamentale dell’esistenza umana, quello del dolore e della morte.
Il brano incomincia con la presentazione dell’ambiente. Siamo nelle vicinanze di Nain (o Naim), un villaggio a una decina di chilometri a sud-est di Nazareth, vicino al confine meridionale della Galilea. Vengono poi presentati i personaggi: da un lato vi è Gesù in cammino verso Nain, seguito dai suoi discepoli e da una «grande folla», dall’altro lato, un morto, figlio unico, che viene portato fuori dalla città per la sepoltura, la madre, vedova, e «molta gente». Vengono quindi presentati due cortei e il contrasto tra di essi è evidente: vi sono due gruppi numerosi, incamminati in direzioni opposte: il primo gruppo è diretto dentro la città, verso il luogo della vita, il secondo esce dalla città, verso il luogo della sepoltura. Il narratore tace sui sentimenti degli uni e degli altri. Non dice esplicitamente se quella donna che non ha più nessuno, né marito né figlio, soffre, piange, colpevolizza se stesso o gli altri. Luca non ci fa conoscere i sentimenti che passano nel cuore della vedova di Nain. L’evangelista non dice neppure se la folla dei parenti e dei vicini si lamenta o se si pone interrogativi drammatici: perché questa donna è rimasta vedova? Perché dopo aver perso il marito ha perso anche l’unico figlio? Che cosa ha fatto per avere questi lutti? Perché Dio ha permesso questo? L’evangelista insiste solo nel presentare la povertà estrema di questa donna, sola, dal futuro incerto, avvolta dalla paura, inconsolabile, circondata da molta gente che però può fare ben poco per lei. L’evangelista sottolinea che la grande folla è testimone muta di quella situazione drammatica; l’unica cosa che può fare è portare fuori dalla città colui che è morto, perché sa che in qualche modo nella città la vita deve continuare. Protagonista di questo mesto corteo è anche il figlio morto. Per comprendere questo racconto dobbiamo identificarci sia con la folla che va verso una sepoltura, sia soprattutto con quella madre vedova e col suo figlio morto.
Quella vedova rappresenta ciascuno di noi, soli, incerti del futuro, incapaci di sconfiggere la morte, spesso immersi nella paura anche se circondati da tanta gente. Quel giovane, morto prematuramente, è simbolo eloquente di ciascuno di noi, che fa fatica a sbocciare sempre alla vita, che sente il peso della morte, che è angosciato dalla morte e da quanto a essa assomiglia o a essa conduce: delusioni, fallimenti, incapacità di esprimersi, di avere relazioni autentiche, peccato.
Con questo corteo, che ha al centro una vedova e il figlio morto, si incontra l’altro corteo che ha al centro Gesù. Non vengono segnalati i sentimenti nemmeno dei membri di questo secondo corteo. L’evangelista non dice niente di quanto passa nella mente degli accompagnatori di Gesù. Sembra che Gesù stesso sia senza una meta precisa, ma in realtà egli ha un appuntamento con una tragedia che la cultura ebraica metteva al vertice del dolore: lo morte del figlio unico di una donna vedova.
Il Signore è mosso a compassione
Luca tace volutamente sui sentimenti dei membri dei due cortei perché vuole mettere in rilievo soprattutto la reazione e il comportamento di Gesù, che è il soggetto di sette verbi nei vv. 13-15: «vide», «fu preso da grande compassione», «disse» (alla vedova), «si avvicinò», «toccò», «disse» (al morto), «restituì» (il ragazzo a sua madre). Fin dall’inizio l’evangelista designa Gesù usando il termine «Signore» (kyrios) ed è la prima volta dopo il racconto della sua nascita, cioè dopo le parole dell’angelo ai pastori (Lc 2,10), che a Gesù viene dato questo importante titolo.
Subito dopo la presentazione dei due gruppi, Luca descrive l’azione di Gesù con queste parole: «Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse» (letteralmente: «vedendo lei, il Signore si commosse su di lei e disse a lei»). Gesù è anzitutto colui che vede, che fissa il suo sguardo sulla situazione. Gesù vede più con il cuore che con gli occhi e questo modo di vedere è sempre necessario, specialmente quando si è alle prese con il dolore, perché solo chi ama sa vedere fino in fondo; l’amore rende penetrante lo sguardo e coglie realmente la situazione. Gesù vede, vede per intervenire, per liberare. Nessuno lo ha cercato, nessuno gli chiede niente, ma anche se non è cercato o richiesto Gesù si sente mosso a intervenire.
Avete mai fatto esperienza di essere guardati con amore? Vi è mai capitato che Dio sia intervenuto positivamente nella vostra vita, anche se voi non lo avevate cercato?
La motivazione dell’intervento di Gesù sta tutta in ciò che egli prova interiormente: Luca dice che egli «fu preso da grande compassione»; in greco c’è il verbo esplanchnisthē, la cui radice è splanchnon, che vuol dire «viscere». Potremmo tradurre: «si commosse visceralmente»; Gesù si commuove visceralmente, viene preso da una intensa commozione, perché è di fronte al mistero più grande della vita: la morte. Lo stesso verbo ritornerà nella parabola del samaritano, per esprimere la potenza della sua attenzione verso l’uomo bisognoso e la concretezza del suo farsi prossimo (Lc 10,33), e ritornerà nella parabola del padre misericordioso, per esprimere la sua sollecitudine premurosa verso il figlio che, dopo essersi allontanato, è ritornato (Lc 15,20). Gesù si è sentito ferito dal dolore di quella vedova. Di solito gli evangelisti sono parchi nel riferire i sentimenti di Gesù. Qui Luca rileva che il dolore della povera madre vedova suscita in Gesù un dolore viscerale, una compassione incontenibile che lo spinge a intervenire, a fare qualcosa; Gesù non ha paura di apparire «troppo umano». Più che una dimostrazione di potere da parte di Gesù, la risurrezione del figlio della vedova di Nain è la rivelazione di quanto è grande la sua misericordia e di come il suo amore è più forte della morte. La compassione di Gesù richiama la misericordia di Dio che è descritta con la parola ebraica rachamim. Questo termine noi lo traduciamo normalmente con «amore», «misericordia», «bontà», «tenerezza», ma di per sé è difficile da tradurre: ha rapporto col grembo materno, col luogo dal quale deriva la vita, e quindi indica la tenerezza materna, l’attaccamento viscerale col quale una madre accoglie la sua creatura, la accompagna, le fa spazio. Il cardinal Martini scrive che «questo attributo di Dio è qualcosa che può capire chi ha amato un’altra creatura con amore totale, viscerale, coinvolgente, appassionato».
Grazie alla sua compassione, Gesù a Nain incarna l’amore di Dio verso di noi annunciato tante volte nell’Antico Testamento, ci testimonia che Dio non è cieco di fronte ai nostri mali, non è indifferente o insensibile. Gesù è il Signore che partecipa intensamente al mistero del dolore e della morte e il suo amore lo spinge a fermarsi, a provare compassione, a intervenire nel dolore dell’umanità.
La nostra vita cristiana deve avere prolungare questo atteggiamento di Gesù, prendersi a cuore le sofferenze degli uomini, intervenendo dove ce n’è bisogno, in forma concreta e nello stesso tempo gratuita, anche senza essere esplicitamente richiesti: occorre avere il coraggio della propria fede, ma avere anche il coraggio di dare spazio al proprio cuore. Perché la fede non è solo una dimensione intimistica, privata, ma ha bisogno di opere che la testimonino e la rendano viva.
Va notato che per sé non è il morto a provocare la compassione di Gesù, ma la madre vedova che piange. L’importante di questo brano non è la morte o il morto in quanto tali, ma il fatto che una madre, già vedova, ha perduto il suo unico figlio; Gesù non sopporta di lasciarla in quella situazione di pianto. Egli si rivolge a lei e le dice: «Non piangere». Quella donna piange il figlio, ma piange anche se stessa, perché sa che sarà sempre accompagnata dal ricordo di quell’unico figlio scomparso, perché sa che nulla potrà mai colmare quel vuoto, quell’assenza e poi è contro natura che un genitore seppellisca il proprio figlio, è una cosa profondamente ingiusta. Questa vedova piange perché ormai fa fatica a vedere i segni della presenza del Dio della vita in lei e attorno a lei. Il pianto va sempre rispettato, ma talvolta esso può diventare un modo per rifiutare di aprirsi alla fede e alla speranza. «Non piangere» e «non temere» sono i due imperativi ripetuti frequentemente nel vangelo, sono gli imperativi della speranza e sono due imperativi che escono dalle pagine del vangelo ed entrano nelle pagine della nostra vita, tutte le volte che noi piangiamo ed abbiamo paura.
Abbiamo mai fatto esperienza di un Dio che ha asciugato le nostre lacrime?
Gesù non invita questa donna a rassegnarsi, a prendere tutto dalle mani di Dio per trovare pace, ma si preoccupa piuttosto di farle capire che Dio è presente, è all’opera per lei. Per questo l’invito a non piangere non è semplicemente verbale, ma è accompagnato da un gesto significativo: Gesù si fa avanti e tocca la bara del defunto, non semplicemente commisera quella donna, si bagna con le lacrime di quella madre. È il Figlio di Dio che si avvicina, si fa prossimo al dolore umano, alla morte e porta una condivisione, una consolazione senza che gli sia stato richiesto. Toccando quella bara, Gesù manifesta la sua superiorità sulla morte e dimostra la sua vicinanza, la sua condivisione al dolore della madre. In qualche modo con quel gesto Gesù esprime di voler fare sua quella morte, ma soprattutto esprime il suo potere sulla morte. Il corteo della morte si ferma di fronte al Signore della vita.
Gesù si rivolge al morto: «Ragazzo, dico a te, alzati!». Gesù parla direttamente al morto, ha tempo e attenzione affettuosa per lui, ha una parola personale per lui, capace di svegliarlo dal sonno della morte. Sempre nei vangeli appare che Gesù ha a cuore la singolarità e la dignità di ogni persona, è attento non solo alle folle, ma al singolo, al suo cammino individuale, anche se a lui sembra povero, modesto, insignificante. Gesù è circondato spesso dalla folla, ma non massifica mai le persone: ha tempo e attenzione per il singolo, gli sta a cuore la singolarità della nostra storia. Infine Gesù al ragazzo dice: «Alzati!», un imperativo che nel Nuovo Testamento è uno squillo di risurrezione.
E questo «alzati!» è detto personalmente a ciascuno di noi: alzati dalle tue lacrime, dalle tue sofferenze, dalla tua depressione, dalla tua solitudine, dalla tua ansia, dalle tue cadute…
E la parola di Gesù è efficace. Di quel giovane, infatti, viene detto che, grazie alla parola e alla vicinanza di Gesù, anzitutto «si alzò a sedere». Lo stare seduti nella bibbia indica l’atteggiamento di chi domina la sua situazione, di chi è padrone della sua esistenza, di chi è in grado di leggere e di risolvere i problemi della vita, di chi non è travolto da essi. Poi l’evangelista dice che il giovanetto «cominciò a parlare»: il sapersi esprimere è la caratteristica più grande di una persona umana vivente. Il giovanetto ha ritrovato la sua capacità espressiva, è in grado di manifestare i suoi sentimenti più profondi. Gesù ha restituito a quel giovinetto il linguaggio, la capacità di comunicare con quanti gli stavano attorno. Quel giovane è stato capito, è stato preso sul serio, è stato toccato dalla misericordia di Gesù. Che cosa avrà detto? Forse un semplice «Grazie». Ecco la prima parola che pronuncia un uomo, quando è giunto alla coscienza di essere amato da Dio, di avere da lui la vita, di ricevere da lui tutto quello che ha.
E noi siamo capaci di una preghiera di ringraziamento?
Luca annota una significativa osservazione: «e lo restituì a sua madre». È difficile immaginare un gesto più amorevole, una misericordia più attenta e concreta. In quel dono di Gesù non c’è soltanto un atto squisito di compassione verso quella vedova, ma c’è anche un significato molto profondo. Quella donna ridiventa madre nel momento in cui riceve il figlio dalle mani di Gesù, quando accoglie come figlio questo giovane la cui vita non viene più da lei, ma dal Signore. Per essere veramente madre e figlio non basta soltanto il legame biologico, ma occorre che tutti e due si riconoscano donati reciprocamente dal Signore. Questo vale per tutte le relazioni tra gli uomini: diventano autentiche quando ci si sente donati l’uno all’altro da Dio, quando sono vissute nella dinamica del dono, perché l’altro, ogni altro, è sempre un dono.
I due cortei uniti nella lode
Il racconto termina ritornando ai due gruppi che non sono più opposti o separati, ma che sono unificati in una stessa lode. La trasformazione operata da Gesù non consiste solo nel ritorno di un giovane alla vita, o nel fatto che una madre privata del figlio lo riceve vivo dalle mani di Gesù; la trasformazione riguarda anche le due folle che prima erano separate e ora sono riunite nella lode. Naturalmente la madre e il figlio non rimangono ingrati: l’evangelista sottolinea che «tutti furono presi da timore e glorificavano Dio» e il termine «tutti» include anche la donna e il figlio risuscitato. Inoltre in quel «tutti furono presi da timore e glorificavano Dio» (v. 16) abbiamo il ritratto vero del credente; l’atteggiamento religioso, infatti, si compone di due dimensioni:
- il timore, che non è paura, ma è adorazione per la grande bontà e trascendenza Dio,
- la glorificazione, vale a dire la lode, il ringraziamento.
L’evangelista Luca nomina più volte il timore e sempre in concomitanza con una straordinaria manifestazione del divino: quando Zaccaria vide l’angelo si turbò e fu preso da timore (1,12); i pastori furono presi da grande timore nella notte di Natale (2,9); le donne rimasero impaurite davanti al sepolcro vuoto e agli angeli il mattino di pasqua (24,5).
Noi temiamo Dio oppure abbiamo paura di Dio?
A proposito del ringraziamento mi piace notare che i due cortei di Nain lodano Dio non per quanto è avvenuto direttamente a loro, ma per quanto è avvenuto alla vedova e al ragazzo: sanno lodare ed esultare per quanto è accaduto agli altri, riconoscono ciò Dio ha compiuto di bello e di buono in altre persone e ne gioiscono. Anche se il dono di Dio direttamente ha riguardato solo la madre vedova e il figlio, sentono di avere incontrato personalmente la misericordia di Dio, percepiscono che il bene che Dio fatto alla donna e al figlio riguarda anche loro. E questo non è così scontato.
Questa lode corale dei due cortei ci invita a chiederci se sappiamo lodare Dio ed esultare non solo per i doni ricevuti personalmente, ma anche per i doni che Dio ha fatto agli altri o per quanto abbiamo ricevuto tramite gli altri; possiamo, per esempio, chiederci se sappiamo gioire e lodare Dio per tutti coloro che sono stati segno concreto del suo amore e della sua misericordia verso di noi: per i genitori che ci hanno dato la vita e per quanti ci sono stati maestri nella vita, per quelli che ci hanno sostenuti con la loro amicizia, per tutti coloro che hanno pregato per noi, per quelli che ci hanno perdonato o sopportato. Per lodare Dio con le labbra e col cuore per quanto egli ha fatto e fa negli altri, occorre che egli ci liberi da ogni amarezza, delusione, risentimento, da ogni volontà di giudizio negativo, occorre che egli ci apra gli occhi per vedere tra noi la continua manifestazione misteriosa del suo amore e del suo perdono.
Personalmente ritengo che la fede muoia non perché qualche dogma viene messo in discussione o perché viene contestato qualche aspetto della morale, ma quando viene meno il senso della meraviglia e della lode nei confronti della misericordia e della bontà di Dio.
Dio ha visitato il suo popolo
La chiave interpretativa dell’episodio va cercata soprattutto nelle ultime parole dell’acclamazione corale: «Dio ha visitato il suo popolo» (v. 16). Gesù è al centro della vicenda del dolore non solo perché è l’uomo della compassione e dell’amore, non tanto perché è «un grande profeta», depositario della parola di Dio, annunciatore della salvezza; Gesù è al centro del brano e della storia, perché in lui si realizza la visita perfetta e piena di Dio in mezzo agli uomini, una visita non imperiale, cioè burocratica, fiscale e distaccata, ma fraterna, misericordiosa, fino ad assumere la nostra stessa realtà, la nostra stessa vita e la nostra stessa morte. Gesù è la presenza di Dio in mezzo al popolo.
Il verbo «visitare» (episkeptomai) è attribuito a Dio diverse volte già nell’Antico Testamento; è utilizzato ad esempio per descrivere la sollecitudine di Dio verso la sterile Sara, quando le ha dato il figlio Isacco (Gen 21,1: «Il Signore visitò Sara, come aveva detto, e fece a Sara come aveva promesso»), ed è usato anche per raccontare l’azione di Dio verso il suo popolo al momento di farlo uscire dall’Egitto (Es 3,16: «Va’! Riunisci gli anziani d’Israele e di’ loro: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, mi è apparso per dirmi: Sono venuto a visitarvi e vedere ciò che viene fatto a voi in Egitto»). Israele pregava sempre che quella visita di amore, di fedeltà, di misericordia si rinnovasse nella storia e che Dio si facesse presente al suo popolo, come ci ricorda il Sal 80,15: «Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna». Luca ama particolarmente questo verbo, lo usa, infatti, ben 4x (1,68.78; 7,16; 19,44) e attesta sempre che la visita di Dio si compie nella venuta stessa del Signore Gesù tra di noi.
Il nostro è dunque un Dio che fa visita alle persone, che si ferma con loro e ne condivide la vita. E questo è lo stile che, come cristiani, sempre più dobbiamo fare nostro: visitare le persone, cioè dedicare tempo alla gente che chiede il nostro aiuto, che ha bisogno di una mano. Credo il verbo «visitare», tanto al passivo quanto all’attivo, sia la porta principale che apre alle relazioni e alle amicizie. Noi siamo visitati? Visitiamo?
Luca conclude il racconto della risurrezione del figlio a Nain con queste parole: «La fama di questi fatti si diffuse in tutta la Giudea e per tutta la regione». Già altre volte l’evangelista ha annotato che la notizia delle azioni e delle parole di Gesù si diffondeva ovunque (Lc 4,14.37; 5,15) e che la gente accorreva a lui da ogni parte (5,17; 6,17). Ora ci viene detto che la fama di Gesù raggiunge tutta la Giudea e la regione intorno. Questa precisazione è un po’ strana, perché Nain non è in Giudea, bensì in pieno territorio della Galilea. Con questa annotazione Luca ci informa che la notizia della risurrezione di un morto raggiunge anche Giovanni Battista (7,18), che si trova in carcere in una regione vicino alla Giudea e che sta interrogandosi sulla identità di Gesù. Egli attendeva un Messia che facesse immediatamente pulizia di tutto il male presente in Israele, che bruciasse la paglia, cioè i peccatori, e raccogliesse definitivamente il grano, cioè i buoni, invece lui si trova in carcere e l’empio Erode siede sul trono e inoltre sente dire che Gesù va incessantemente incontro ai deboli, cerca gli esclusi, perdona i peccatori. Dov’è allora l’intervento decisivo di Dio? Dov’è il cambiamento che il Messia deve portare? Luca ci dice che la notizia dei miracoli compiuti da Gesù, compreso quello della risurrezione del figlio della vedova di Nain, si diffonde in tutta la Giudea, arriva cioè anche agli orecchi del Battista e così viene già preparata la risposta rassicurante che il Signore può dare ai suoi inviati: egli non si è sbagliato sulla identità di Gesù. Gesù è veramente il Messia atteso, perché ormai è giunto il tempo preannunciato dai profeti, il tempo in cui «i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia» (7,22).
Permettetemi di chiudere con un augurio. Che ciascuno di voi, quando è stanco, deluso, triste, amareggiato, spaventato, possa sentire rivolti a sé i due comandi di Gesù, i due imperativi della speranza: «Non temere! … Non piangere!».
dSZ
***
Per l’approfondimento e lo studio personale alleghiamo in pdf un articolo estratto da “Parole di Vita” 2 (2010) LaPesca Miracolosa (Lc 5,1-11), Michelangelo Priotto
Prossimo incontro venerdì 8 febbraio 2019, alle ore 19,30 sempre presso il salone del Convento di Monteripido (Perugia) per proseguire nella lettura del Vangelo di Luca con la Lectio della Dott.sa Emanuela Buccioni (in sostituzione della Prof.sa Marinella Perroni impossibilitata a partecipare) su “il viaggio di Gesù verso Gerusalemme”. L’ingresso è libero e tutte le lezioni verranno pubblicate in audio e in video, scaricabili liberamente, su questo sito.
***
Immagini e commento
Raffaello, Pesca Miracolosa (1515)

Commento a cura di Micaela Soranzo in pdf (scaricabile) scheda Lc.5,1-11
Domenico Ghirlandaio, Vocazione di Pietro e Andrea

Commento a cura di Marcello Panzanini (in pdf), articolo estratto da “Parole di Vita” n.2 (2010) La Chiamata di Pietro e Andrea