Il libro di Rut - Un commento del filosofo Massimo Cacciari
Di seguito il commento al libro di Rut, "Rut la moabita. Donna, straniera e madre" di Massimo Cacciari, pubblicato in Gilberto Gillini - Mariateresa Zattoni - Giulio Michelini, Rut. La straniera coraggiosa, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2009, 25-33.
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Massimo Cacciari - Rut la moabita. Donna, straniera e madre
Nomi di donne
Tra i tanti nomi della genealogia di Gesù, con i quali Matteo fa iniziare il suo Buon Annuncio, a differenza di quello che accadeva quasi sempre nelle genealogie ebraiche, figurano nomi di donna.
E si tratta di donne affatto particolari; non di quelle che illustrano la casa di Israele, come le grandi figure di Rachele, Lia, Sara.
“Al loro posto” troviamo invece i nomi di Rut, di Tamar, di Raab e di «quella di Uria», l’ittita, Betsabèa, la donna di Davide.
Non può essere certo un caso che Matteo le collochi nella genealogia del Salvatore, “dimenticando” quelle che figurano come le autentiche “madri” di Israele. Le quattro che egli menziona sono tutte, per un verso o per l’altro, donne “ultime”; ma appunto «gli ultimi saranno i primi» e «Dio ha scelto i poveri, i deboli del mondo».
Di Tamar si parla in Genesi 38.
È la sposa del primogenito di Giuda, Er, la madre di Fares, l’antenato di Davide e di Booz, figura quest’ultima che ritroveremo nel Libro di Rut. Rifiutata da Er, Tamar è costretta a prostituirsi per aver un figlio dallo stesso Giuda. La prima donna che Matteo ricorda è perciò costretta a un simile atto per garantire quella discendenza che condurrà allo stesso Salvatore.
Raab è la famosa prostituta di Gerico. Poiché sa che il Signore ha assegnato la sua terra a Israele, ella confessa che «il Signore vostro Dio è Dio lassù in cielo e quaggiù in terra» (Gs 2,11), e nasconde nella sua casa quegli esploratori che Giosuè aveva mandato a Gerico per prepararne la conquista, sottraendoli così alla cattura e alla morte.
Betsabèa è segno di uno dei peccati mortali di Davide. Desiderata con passione indomabile da Davide, ella è tuttavia anche quella di Uria l’ittita. E Davide manda a morte, nell’assalto contro gli Ammoniti, Uria per nascondere il proprio peccato. Natan profeta lo accusa e Dio lo punisce facendo morire il figlio che ha da Betsabèa. Ma Betsabèa concepirà poi da Davide il grande Salomone.
Betsabèa è figura profondamente diversa da quelle di Tamar e di Raab. Tanto queste appaiono attive, operose, determiniate, tanto Betsabea ci appare passiva e silente, una figura che soffre misteriosamente, coinvolta in vicende che la travolgono, senza che ella possa né impedirle né giudicarle.
E ora Rut, la moabita. Tra le donne della genealogia ricordate da Matteo è lei la più inquietante, e “giustamente” a lei il Primo Patto dedica un brevissimo, ma fulminante libro.
I moabiti sono una stirpe che inizia col superstite di Sòdoma, Lot. Fuggito da Sòdoma in fiamme Lot si ritira con le figlie sulle montagne. Le figlie lo ubriacano e giacciono con lui per avere discendenza; una situazione che per certi versi ci ricorda quella di Tamar. La prima di queste figlie concepisce Moab, mentre la seconda colui che sarà il capostipite degli Ammoniti. Perciò entrambi, l’Ammonita e il Moabita, saranno indicati lungo tutta la tradizione biblica come popoli incestuosi. Essi non entreranno nella comunità del Signore: «Nessuno dei loro discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nella comunità del Signore» (Dt 23,4). Ed ecco che proprio una moabita è l’antenata di Davide e perciò dello stesso Messia!
D’altronde, anche prima di Matteo, Rut figurava tra gli antenati del grande Davide, e perciò le era dedicato quel piccolo, grande Libro, che nella Bibbia ebraica è collocato tra gli “Scritti”, insieme ai Salmi, ai Proverbi, a Giobbe e al Cantico. A mio avviso questa collocazione è assai più consona al carattere del Libro di quella cristiana, che lo colloca, come già i Settanta, tra i Libri storici, ma per motivi del tutto estrinseci. Sembra che il Libro risalga al IV-V secolo a.C., un periodo molto significativo per la storia di Israele, un periodo nel quale Israele lotta per difendere l’integrità del proprio culto nei confronti di popoli, culture e tradizioni straniere, un periodo di conservazione, si potrebbe dire, anche in seguito alla grande catastrofe dell’esilio. E ciò fa emergere ancora di più la straordinarietà della testimonianza che ci offre il libro di Rut.
Umiltà che lotta
Il contenuto del libro è noto, ma vale la pena ricordarlo. Un uomo di Betlemme di Giuda è costretto ad emigrare dalla sua terra a quella di Moab a causa di una carestia. Emigra con la moglie Noemi (che significa “dolcezza”) e i suoi due figli. La famiglia si stabilisce nel territorio di Moab senza alcun conflitto con gli indigeni che vi risiedono (o almeno nulla si dice a proposito), e tuttavia è colpita spietatamente dal Signore. È una sorte, la sua, simile a quella di Giobbe. “Senza ragione” il Signore li mette alla prova più dura.
Dopo la morte del marito Noemi deve piangere anche quella dei figli, uno dei quali si era sposato appunto con Rut. Noemi muta, allora, il suo nome in quello di Mara (che vuol dire “amarezza”) e dice alle nuore: «Io sono troppo infelice per potervi giovare, poiché la mano del Signore è stesa contro di me» (Rut 1,13). Noemi è abbandonata, sola e straniera nella terra di Moab. E invita le due nuore ad abbandonarla, a non seguirla nel suo disperato ritorno in Giudea.
Pur addolorata di dover abbandonare la suocera, una di esse decide di stare col suo popolo. Rut invece, senza spiegarne il motivo, apparentemente senza alcuna ragione, non si stacca da Noemi-Mara. «Non insistere con me perché ti abbandoni – ella dice – perché dove andrai tu andrò anche io, dove ti fermerai mi fermerò. Il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio. Dove tu morirai, io morirò e sarò sepolta. Il Signore mi punisca come vuole se altra cosa che la morte mi separerà da te» (Rut 1,16-17). È una parola assolutamente imprevedibile, fatta di amore assoluto, una decisione che nulla calcola, che nulla scambia. Puro dono. E tuttavia è testimonianza di un amore totalmente umano e terreno; Rut ama in modo incondizionato una persona in carne ed ossa. Non si è convertita al Dio di Noemi, ma poiché ama Noemi fa proprio anche il Dio di quest’ultima. Al Dio di Israele ella perviene attraverso l’amore per questa sua prossima, per il suo prossimo più abbandonato derelitto, disperato.
E dunque Rut lascia la sua terra i suoi consanguinei, abbandona tutto “ il suo” per donarsi tutta all’altra.
Matteo non poteva non ricordare in questa figura le radicali parole della “decisione” di Gesù stesso: «Lascia tutto, seguimi» (cfr. Mt 19,21). Così fa Rut: per seguire Noemi lascia perfino il suo Dio, e si umilia ai mestieri più poveri, spigolando dietro i contadini, raccogliendo ciò che avanza dal loro lavoro, come i più poveri dei poveri in Israele.
Noemi senza marito e senza figli; Rut senza figli, vedova, e per di più straniera, e non una straniera qualsiasi, ma una moabita, una del popolo incestuoso e maledetto. Entrambe ridotte all’umiltà totale: umili davvero da humus, letteralmente “a terra”.
Ma Rut è della stirpe di Tamar e di Raab. La sua umiltà è fatta anche di lotta. Ella lavora nelle campagne di Booz (che significa “in lui la forza”). Pur essendo un parente di Noemi, egli non ha alcun obbligo diretto di accudirne la famiglia. Tuttavia dà cibo e lavoro alla moabita, la accoglie e lentamente (se ne accenna nel racconto, anche se con grande pudore) prova affetto per questa straniera, fino a riscattarla dal primo parente e a farla sua sposa. Dal legame tra Rut e Booz nascerà il padre del padre di Davide.
Una conquista disarmante
Ma come ha potuto Rut “conquistare” Booz, il “forte”? Non viene agli inerti e ai negligenti la libertà; essa viene soltanto a coloro che vogliono ardentemente conquistarla. Sta scritto: il regno dei cieli sarà dei “violenti”, dei biastoi, termine non diversamente traducibile. Soltanto bia, per forza e violenza, attraverso la porta più stretta, è “assalibile” il regno dei cieli.
Rut perciò è insieme perfettamente umile e perfettamente decisa ad ottenere la sua liberazione. Come una figlia di Lot, entra nel letto di Booz per averlo. Né Booz si stupisce che Rut voglia giacere con lui; se non la tocca, è perché proprio allora capisce di volerla in sposa e di fronte ai testimoni dice: «Ecco Rut è diventata mia sposa» (cfr. Rut 4,9-11).
Apertura e paradossalità dei testi biblici, scevri da ogni ipocrisia e moralismo, davvero liberi dal cattivo senso comune.
Rut conquista il suo uomo con un gesto “scandaloso”. E proprio questo viene benedetto dal Signore! Nasce così il figlio Obed, che sarà il padre di Iesse, padre di Davide.
Ma questo Obed non è solo il figlio di Rut, è anche il figlio di Noemi! «Noemi prese il bambino e se lo pose in grembo e gli fu nutrice. E le vicine dissero: “È nato un figlio a Noemi!”» (Rut 4,16-17). Il legame tra le due donne è tale per cui è come generassero insieme. Il topos biblico della donna vecchia, senza più speranza, che riesce ancora partorire, qui si ripete. Il puro dono di amore di Rut a Noemi si “incarna” in Obed.
La sacralità dello straniero
Cerchiamo di approfondire ancora la carica provocatoria di questo Libro.
Anzitutto, qui si pone “in crisi” quell’esclusivismo di Israele, di cui nella Bibbia stessa possiamo trovare innumerevoli testimonianze: Israele è solo, é la sposa pura che nessuno può contaminare, etc. In Rut troviamo l’altra faccia del Grande Codice: lo straniero (non soltanto colui che ospitiamo e diventa proselita, cioè vive presso di noi, “integrato” in noi), lo straniero davvero totalmente tale è sacro. Dio non vuole sia toccato. Anzi, è proprio lui che si deve amare. Questo è il timbro biblico che verrà assunto con univoca purezza nelle parole di Gesù. L’amore supera ogni differenza di razza, di gente, di costume, di tradizione.
Ma il racconto di Rut pone un problema infinitamente più radicale.
Abbiamo detto che ella segue Noemi e che solo attraverso Noemi aderisce al Dio di Israele. Ma chi è questo Dio? Far proprio il Dio vittorioso è facile; nell’antichità classica ciò accadeva costantemente; è ben noto che quando i Romani ponevano l’assedio ad una città, prima di distruggerla, ne invocavano gli Dei, invitandoli a passare dalla loro parte, invitandoli ad entrare nel loro Pantheon. È sempre stato facile aderire al Dio dei vincitori. Rut invece segue Noemi, che dal suo Dio è stata addirittura abbandonata. Rut segue il Dio dei vinti e condivide l’amarezza dei suoi fedeli. Così Gesù sulla croce obbedisce al Dio che l’ha abbandonato. Lui abbandonato vuole che si segua la volontà del Dio che abbandona, dell’opposto esatto del Dio che si manifesta per segni di vittoria.
Un passo ulteriore: il Dio che abbandona è nella sua essenza il Dio “non mio”, il Dio cioè di cui mai posso “impadronirmi”. Ma questa è la verità stessa del Dio biblico. L’insistenza biblica sul Dio nascosto, sul silenzio di Dio, sulla sua stessa “ira”, che altro non significa che il suo silenzio o il suo abbandonarci, non esprime se non la verità del fatto che il rapporto dell’uomo con Dio non potrà mai essere improntato a termini di acquisizione e di possesso. Mai Dio può essere fatto “ente” o “cosa” su cui costruire tranquille dimore. Mai può essere ridotto a mio certo fondamento. In ciò consiste la provocazione fondamentale del libro di Rut.
Capace di perfetto amore è una straniera in Israele; ella perviene al Dio di Israele solo attraverso l’amore, anzi: l’aver cura concreta del prossimo; questo Dio non è “suo”, poiché mai Dio può trasformarsi in fondamento o possesso, poiché Egli è Voce che chiede di essere seguita e di tutto abbandonare per seguirla; infine, per seguire tale Voce, per “liberarsi” ad essa, occorre forza, energia, occorre apparire anche “violenti” agli occhi di ipocriti e scribi, alla “troppo umana” misura delle loro “leggi”.