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Commento al Vangelo di Natale, domenica 25 dicembre 2016, a cura di Giulio Michelini ofm

24/12/2016

 - Al tempo di Cesare Augusto

- «Noi crediamo e professiamo che Gesù di Nazaret, nato ebreo da una figlia d’Israele, a Betlemme, al tempo del re Erode il Grande e dell’imperatore Cesare Augusto, di mestiere carpentiere, morto crocifisso a Gerusalemme, sotto il procuratore Ponzio Pilato, mentre regnava l’imperatore Tiberio, è il Figlio eterno di Dio fatto uomo, il quale è venuto da Dio (Gv 13,3), disceso dal cielo (Gv 3,13; Gv 6,33), venuto nella carne (1Gv 4,2); infatti il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14)». Così il Catechismo universale della Chiesa (423), che ci aiuta oggi a comprendere il brano dal vangelo secondo Luca nella messa di Natale.

In questo giorno è particolarmente importante ricordare che la nascita di Gesù avviene – come soprattutto ci ricorda il Terzo vangelo – in un tempo e in uno spazio ben definiti, e che queste coordinate non sono casuali. Infatti, potremmo dire che nel momento in cui nasce il figlio di Maria è portata a compimento l’attesa dell’umanità, quando, direbbe Paolo, si è finalmente raggiunta la pienezza dei tempi. Permettetemi così di riprendere due o tre momenti della storia e della letteratura prima di Cristo, per mostrare quale doveva essere il senso dell’attesa alla nascita del Salvatore.

Possiamo partire da quella intricante testimonianza che sono gli Oracoli sibillini. Il nome di questa collezione di testi poetici deriva dalle Sibille, che nella mitologia greco-romana si credeva fossero dotate di capacità divinatorie e che vivevano sparse nel Mediterraneo (ricordiamo la sibilla Cumana in Campania). Gli scritti sibillini – raccolti in nove libri – furono distrutti nell’83 a.C. in un incendio a Roma, ma continuarono a suscitare le fantasie degli antichi, tanto che vennero scritti e riscritti varie volte. Anche gli ebrei della diaspora, e i cristiani dopo di questi, iniziarono a comporre alcuni testi sulla falsariga degli originali, tanto che possediamo oggi quattordici raccolte. Gli oracoli degli ebrei di Alessandria d’Egitto, composti in un periodo che arriva fino al I secolo d.C., «insistevano sui temi del monoteismo, del messianismo e del giudizio finale, con molti velati riferimenti alla storia, e così fecero poi anche i cristiani che venerarono assai questi scritti» (Penna). La fortuna di questa produzione fu infatti ampia: citati innumerevoli volte dai padri della Chiesa, vennero poi ripresi nella letteratura e nell’arte nei secoli: si pensi al Dies Irae («Solvet saeclum in favilla, teste David cum Sibylla») o alle cinque sibille dell’affresco di Michelangelo nella Cappella Sistina, o alle sibille che sovrastano i profeti nelle sculture dello scrigno della Santa Casa di Loreto. Il libro terzo conserva una profezia sul Messia: «E poi il Signore invierà un re dal sole che fermerà su tutta la terra la guerra malefica, uccidendo alcuni e imponendo giuramenti di fedeltà ad altri; e non compirà tutto questo per sua volontà ma in obbedienza ai nobili insegnamenti del grande Dio». Quanta differenza tra questa immagine e quella del bambino che nasce a Betlemme, ma quanta speranza si intravvede in tali parole.

Quasi in contemporanea a tali composizioni, Virgilio scrive la sua Quarta egloga: «Ormai torna la Vergine, ormai una nuova generazione è inviata dall’alto cielo. Col fanciullo che ora nasce finisce l’età del ferro e sorge in tutto il mondo quella dell’oro. Egli riceverà la vita divina, e reggerà il mondo ormai in pace». Negli oracoli misteriosi delle Sibille e nella poesia di Virgilio si ascolta la voce di una umanità che ha una netta percezione della propria manchevolezza: la storia non sarà completa, finché non verrà un Sole che porterà la pace e un Fanciullo che inizierà l’età dell’oro. Cosa volessero veramente intendere nel loro senso originario tali scritti, non lo sappiamo. Ma noi cristiani siamo capaci di dare ad essi un senso complessivo, inquadrandoli in quel contesto che potremmo chiamare la preparazione alla salvezza.

Per tale motivo, è importante la notizia storica che Luca ci riferisce: Maria e Giuseppe rispettano, anch’essi, il dogma (cfr. Lc 2,1) imposto da Cesare Augusto, l’imperatore sotto cui vivono i genitori di Gesù ma anche Virgilio e gli autori degli Oracoli sibillini. È Augusto l’imperatore che porta la pace nel mondo romano, e che anzi potrà dedicare alla pace, cosa prima d’allora mai accaduta, un tempio, che ancora oggi ammiriamo sulla riva destra del Tevere, a Roma. È Augusto, per la storia che troviamo sui libri, il principe della pace di cui parlavano i poeti? Egli certo ha contribuito a far sì che, come cantiamo alla mattina di Natale, fosse «toto orbe in pace composito». Ma quella pace non poteva saziare il cuore dell’uomo: la storia della salvezza, quella che scrive Dio nella vita e nei cuori degli uomini, e che i libri di storia invece fanno spesso fatica a registrare, ci dice di un diverso e più grande principe della pace. È il bambino, per il quale non solo Virgilio o i maghi cantano, ma anche gli angeli, con tutto l’umanità in attesa: «Pace in terra, agli uomini amati da Dio» (cfr. Lc 2,14).

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