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Commento al vangelo della XXXII domenica T.O., 6 novembre 2016 (Lc 20, 27-38) a cura di Giulio Michelini ofm

02/11/2016

- Dio dei vivi e non dei morti

Gesù è ormai arrivato a Gerusalemme. È entrato in città e nel tempio; ne ha preso possesso, e ora lì insegna con autorità. Dal racconto della chiamata di Zaccheo il nostro lezionario ne ha fatta di strada, tralasciando quelle pericopi che ascolteremo in altri momenti, e ci ha portati ad affrontare due temi che bene si addicono alla fine dell’anno liturgico: la risurrezione (questa domenica) e la fine dei tempi (la prossima). Saremo così in grado di prepararci alla celebrazione della solennità di Cristo Re.

I ricchi sadducei. Questa volta non sono i farisei o i sacerdoti a provocare Gesù, ma i sadducei. Di questo movimento sappiamo poco. Il nome deriva probabilmente dal sommo sacerdote Sadoq (1Re 2,35), custode dell’arca al tempo di Salomone. Erano un movimento di benestanti e proprietari terrieri. Così li ritrae lo storico dell’epoca Giuseppe Flavio: «Essi non fanno praticamente niente: quando infatti assumono qualche carica, contro voglia o per necessità, accedono a quanto dicono i farisei, perché altrimenti non potrebbero riuscire accetti alla massa del popolo» (Ant. 18.I.4). Importanti sono le differenze dottrinali con i farisei: i sadducei rifiutavano ogni tradizione normativa al di fuori della Legge e dei Profeti, e al contrario dei farisei, con spirito conservatore, si attenevano soltanto alla Legge scritta: ancora Giuseppe Flavio attesta che «quanto ai sadducei, la loro dottrina fa morire le anime insieme con i corpi» (ibid.). I due elementi – Legge scritta e risurrezione – sono strettamente connessi. È chiaro infatti che proprio il tradizionalismo dei sadducei «faceva loro rifiutare praticamente tutte le dottrine non attestate, o anche solo scarsamente attestate, nella Bibbia ebraica» (A. Soggin): così la risurrezione dei morti, che appare solo raramente e in epoca tardiva nella Bibbia, ed è presente in modo chiaro ed esplicito solo nel Nuovo Testamento; così anche per le altre dottrine (angelologia e demonologia).

Gesù con i farisei, come sappiamo, ha un rapporto conflittuale, probabilmente indizio di una prossimità e di una relazione stretta con essi. Ma mentre questi scompaiono negli ultimi momenti della sua vita, i sadducei del sinedrio ricompariranno in modo netto durante il suo processo: anzi, proprio i sadducei, insieme ai sacerdoti-capi e anziani, sono le figure dominanti del processo contro Gesù e i maggiori responsabili della sua condanna. Gesù infatti, con il gesto clamoroso della cacciata dei mercanti dal tempio, aveva portato un attentato al loro sistema rituale, alla loro religione del tempio, e anche ai loro interessi economici.

Risurrezione? La controversia narrata nel vangelo di oggi si trova anche in Mc 12,18-27 e in Mt 22,23-33. Non è nostro compito mettere a confronto le diverse prospettive: ci concentriamo solo sul racconto lucano. Anche lì comunque i sadducei dicono di conoscere la Legge, e la citano, infatti, dal libro del Deuteronomio 25,5-10, che tratta della questione del levirato (cioè dell’obbligo per un uomo di sposare la moglie del fratello morto senza discendenza). Ma una cosa è dire di conoscere la Legge, l’altra capirne il senso profondo. Per tale ragione Gesù può rimproverare i sadducei dicendo loro «Voi siete gravemente in errore» (Mc 12,27) e «non conoscete né le Scritture né la potenza di Dio» (Mc 12,24), quando questi credono di esemplificare la legge del levirato arrivando alla conclusione che la risurrezione è impossibile. L’errore della visione dei sadducei è che questa «presuppone una visione piuttosto materiale dell’aldilà: la risurrezione consisterebbe in un ritorno alla vita terrena soltanto migliorata e potenzializzata; si proietta nell’aldilà il positivo della vita terrena, in particolare le gioie, la fecondità e la fertilità. Ci sarà dunque anche un ritorno alla vita matrimoniale» (G. Rossé).

Dobbiamo però specificare meglio un punto riguardante la risurrezione. La credenza in un’esistenza sostanziale dopo la morte è relativamente tardiva nello sviluppo della religione di Israele: viene formulata esplicitamente solo nei testi del II secolo a.C., all’epoca della crisi maccabaica, perché prima dell’esilio la morte non rappresentò mai un problema per il credente ebreo. Il morire era visto come connaturale all’esistenza, e implicava necessariamente finire nello Sheol. Se gli scrittori del periodo esilico e postesilico usano il linguaggio di morte-risurrezione come una metafora per esprimere la rinascita di Israele e il ritorno dall’esilio (vedi Ez 37,1-14), a un certo punto avviene una svolta: nel giudaismo si inizia a formare l’idea che la morte non può vincere la giustizia di Dio e la relazione che egli ha con la singola persona. Il primo testo che, in termini chiari, formula la fede nella risurrezione dei morti è Dan 12,2-3, dove si parla appunto della risurrezione esclusiva dei giusti, mentre per gli empi è prevista la corruzione. Allo stesso modo in 2Mac 7,1-42 si parla di risurrezione per coloro che hanno preservato la loro fedeltà verso Dio, anche a prezzo del martirio. Il linguaggio di risurrezione nasce in questo modo per rispondere a situazioni di crisi, come persecuzioni o oppressioni, oppure per tematizzare la giustizia di Dio che opera nei confronti dei giusti e degli empi. Dopo le prime incertezze, infine, sarà con i cristiani che si chiarisce, in modo inequivocabile rispetto all’AT o al giudaismo del suo tempo, che i morti risorgeranno nella carne (ma nel Talmud è scritto che chi non crede nella risurrezione non è ebreo).

Come angeli del cielo. Gesù si sposta invece su un altro piano. Anzitutto chiarisce che l’unione sessuale è una realtà del tempo presente, è legata alla condizione mortale dell’uomo, alla trasmissione della vita e della specie, al primo comandamento di Dio, ovvero alle prime parole di Dio all’uomo: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra» (Gen 1,28). Nell’altra vita quel comando non servirà più, ci sarà un «superamento del rapporto sessuale, visto che l’uomo sarà immortale». «Ma l’essere come angeli non significa che la natura dell’uomo viene trasformata in quella angelica. L’uomo risorto non è disumanizzato, e questa novità non esclude la realtà del sesso e non annulla l’amore vissuto sulla terra» (Rossé). Ognuno, cioè, conserverà il proprio corpo sessuato, la propria personalità (Catechismo della Chiesa cattolica, 298: «Dio, poiché può creare dal nulla, può anche, per opera dello Spirito Santo, donare […] ai defunti, con la risurrezione, la vita del corpo»), e anche i rapporti interpersonali che si sono creati sulla terra non potranno essere cancellati.

L’argomento portato dai sadducei è molto sottile, ed è basato sulla regola esegetica chiamata qal vahomer (deduzione logica dal minore al maggiore, e viceversa), presente già nella Torà stessa, una delle poche tecniche utilizzate proprio da questo movimento. Gesù risponde con un altro argomento, citando un importante testo della Torà, Es 3,15 («Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe…»), ovvero l’autorivelazione di Dio a Mosè dal roveto. Il “contro-argomento” portato da Gesù a favore della risurrezione, con il ricorso alla prova da Es 3,15 è stato spesso considerato, anche da grandi studiosi, una caricatura esegetica del significato originario del testo veterotestamentario. Ma altri ora difendono e spiegano il procedimento logico ed esegetico messo in opera da Gesù, che riflette una tradizione interpretativa caratteristica del giudaismo del primo secolo. F. Manns, in un suo studio del 1990, ha proposto di interpretare la logica dell’argomento di Gesù a partire dal metodo esegetico chiamato al tiqra, che comporta il leggere le vocali dell’alfabeto ebraico in un altro modo rispetto a come sono scritte. Senza entrare nei dettagli, secondo questa spiegazione la frase «Yhwh, Dio di Abramo» in Lc 20,37 e paralleli significherebbe «Elohim fa esistere Abramo». Questa proposta rispecchia bene i metodi tipicamente rabbinici di leggere la Scrittura; e che Gesù aderisca più o meno strettamente alle regole dell’argomentazione rabbinica (i sadducei usano proprio una delle sette regole esegetiche di Hillel!), la sua risposta criptica non è dissimile a quella dei suoi contemporanei (in particolare a quella dei farisei) nell’obbligare il lettore a indagare più profondamente il testo per coglierne il significato. Quando Gesù si rifà alla Torà come testo d’appoggio per la dottrina della risurrezione, usa in fondo una tecnica del tutto simile a quelle che si ritrovano in testi talmudici e anche altrove nella tradizione giudaica, un’operazione che comporta una certa complessità, a cui i rabbini del tempo di Gesù erano – e l’esegesi ebraica successiva sarà – ben abituati. Guardando ancor più da vicino, però, si vede che la formula tripartita usata da Gesù a riguardo dei patriarchi appare in altri luoghi dell’AT, e in testi apocrifi giudaici, sempre però per esprimere l’idea della liberazione di Israele dall’Egitto (cfr. Gen 50,24; Es 2,24; 3,15-16; 6,8; Dt 1,8; 6,10), o dall’esilio (cfr. Lv 26,42; Ger 33,26, Bar 2,34), o dalla morte (come testimoniato in 4Mac 7,18-19; 16,25; Testamento di Levi 15,4; 18,11-14; Testamento di Giuda 25,1; cfr. Talmud di Gerusalemme, Berakhot 2,2; Talmud babilonese, Berakhot 18a). Dato che la formula di Es 3 ricorre anche in At 3,13 (cfr. 7,32), in connessione con l’annuncio della risurrezione di Cristo, ciò ci porta a pensare che Gesù non si stia tanto riferendo ad Abramo, Isacco e Giacobbe in quanto le loro storie hanno a che fare, come per il caso sollevato dai sadducei, con la sterilità delle matriarche e dei patriarchi, quanto piuttosto per sottolineare un’altra idea.

La risposta di Gesù ai sadducei non può essere analizzata, a nostro avviso, soltanto sul piano dell’affermazione dell’esistenza in vita dei patriarchi (elemento tra i più frequentati per spiegare il senso della frase di Gesù), o sul valore perenne dell’alleanza stabilita con questi. È molto importante anche il fatto che il testo ripreso da Gesù, Es 3,6.15, sia un testo della Torà inserito nel contesto della storia della liberazione di Israele dalla schiavitù dell’Egitto. In fondo, si tratta di quanto valorizzato in modo ininterrotto dalla tradizione interpretativa giudaica sin dall’antichità ai giorni nostri. La citazione di Es 3,14-15 non comporta solo la ripresa di una frase che svela l’essenza di Dio nel suo nome (lettura ontologica che prevarrà nella traduzione della Settanta e in altri autori), ma il rifarsi all’azione salvifica di Dio nei confronti di Israele (prima), e di tutti gli uomini (poi). Il richiamo al nome di Dio in Es 3 implica il carattere e il potere di colui che porta quel nome, in quanto soprattutto creatore della vita, e redentore della stessa quando è minacciata, come avviene a causa della morte. Il Dio dei patriarchi evocato nel contesto dell’Esodo, infatti, per i Targumim prima, e per molti scritti giudaici in seguito, è il Dio della vita che fa continuamente essere il suo popolo e il mondo. Così infatti già una traduzione verso l’aramaico (Targum Neofiti) rendeva il testo: «Io sono esistito prima che il mondo fosse creato, e sono esistito dopo che il mondo è stato creato. Sono colui che è stato tuo aiuto nell’esilio in Egitto, e sono io che sarò ancora tuo aiuto in ogni generazione» (Nfmg 2). Lo stesso concetto si troverà nel Talmud: «“Io sono colui che sono”. Disse il Santo, benedetto Egli sia, a Mosè: “Va’ e di’ a Israele: sono stato con voi in questa schiavitù e sarò con voi nella schiavitù degli [altri] regni”. Allora Mosè disse: “Signore del mondo, a ogni ora la sua pena. Disse a lui il Santo, benedetto Egli sia: Va, di’ loro: “Io-sono mi ha mandato a voi”» (Talmud babilonese, Berakhot 9b). Il Dio a cui si richiama Gesù non si presenta a Mosè semplicemente come colui che fa essere il mondo, ma come il Dio che è-presente-con, anche e soprattutto nella prova. Se Dio si è preso cura della creazione, e avrà cura del mondo che verrà, non può non aver cura del suo figlio Israele nel momento di ogni sua sofferenza, e anche nel futuro. Il Dio dei patriarchi è il Dio della vita e della risurrezione.

Siamo però entrati in un campo difficile e delicato, e dobbiamo sapere – come spiegava bene J. Ratzinger nel suo trattato Escatologia. Morte e vita eterna (Cittadella, Assisi 1979) – che «è del tutto impossibile immaginare anche solo approssimativamente un benché minimo dettaglio circa il mondo della risurrezione». Ci torna alla mente una poesia di D.M. Turoldo dai suoi Canti Ultimi: «Non so come, non so dove, ma tutto / perdurerà: di vita in vita / e ancora da morte a vita / come onde sulle balze / di un fiume senza fine».

Giulio Michelini ofm

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Per un approfondimento della pericope si può vedere l’articolo su Es 3,14-15 citato da Gesù in Lc 20,37, pubblicato su Convivium Assisiense:

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