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Commento al Vangelo della XX domenica del T.O. (Gv 6,51-58)

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

Il pane della vita
Il Vangelo della domenica XX del T.O. è la conclusione del racconto della "moltiplicazione" dei pani secondo Giovanni.
Questo “segno” di condivisione è l’unico narrato da tutti i vangeli; anzi, Matteo e Marco lo raccontano addirittura due volte. Le narrazioni sono simili, ma ciascuna conserva alcune caratteristiche proprie. Il racconto di Giovanni, in particolare, non sembra essere una espansione di quello dei sinottici, non sembra cioè sia stato messo insieme con brani presi dagli altri vangeli; appare come una composizione originale basata su una tradizione indipendente, che Giovanni avrebbe raccolto e conservato.
Nel racconto di Giovanni c’è un orientamento teologico particolare, che emerge soprattutto dal brano proposto dal lezionario di oggi. Questo potrebbe essere considerato la sezione eucaristica o sacramentale del racconto. Anche nelle altre cinque versioni dei nei sinottici vi è un forte motivo eucaristico, ma questo è più esplicito in Giovanni, che è probabilmente il Vangelo più lontano dagli avvenimenti narrati: «via via che il racconto della moltiplicazione veniva tramandato nella tradizione dottrinale della comunità cristiana, veniva riconosciuta la sua connessione col cibo speciale del popolo di Dio, l’eucaristia. Il linguaggio dei racconti della moltiplicazione si colorava delle liturgie eucaristiche familiari alle varie comunità» (R. Brown).
Ora, noi sappiamo bene che il Quarto Vangelo non riporta il racconto dell’istituzione dell’eucaristia nel cenacolo, come invece gli altri Vangeli, ma è proprio qui che si legge, in filigrana, la tradizione viva della chiesa giovannea che celebrava la memoria di quell’ultima cena. Facciamo solo alcuni esempi. In Gv 6,11.23, appare per due volte il verbo eucharistein (ringraziare, rendere grazie); sempre in 6,11 Gesù, dopo aver resto grazie, distribuisce i pani ai discepoli, proprio come fece nell’ultima cena; infine, l’espressione «quando furono saziati» (6,12), «riecheggia la liturgia eucaristica, poiché essa appare anche nel racconto della cena eucaristica nella Didachè» (Brown), un testo cristiano del II secolo.
Nel nostro Vangelo emerge particolarmente il tema della carne e del sangue. È qui che si scontra l’incredulità di alcuni dei Giudei, segno ideale della nostra stessa incredulità. Se possiamo accettare di sentir parlare di un Dio che sfama i suoi e moltiplica il pane per loro, più difficile è pensare che Dio offra il suo corpo da mangiare. Possiamo al limite accettare la beneficenza, più difficile è credere che la solidarietà si spinga fino al dono della stessa vita di Dio.
Eppure nel brano di oggi si parla proprio di vita e di morte. Il pane disceso dal cielo (un chiaro richiamo al tema della manna di Es 16), che comunque ha dato modo agli ebrei di sopravvivere nel deserto, non era un pane che avesse in sé la vita: di questo «mangiarono i padri vostri e morirono» (Gv 6,58). La morte non può essere ingannata da un semplice alimento quale il pane: anche se tutti i giorni si sopravvive grazie al pane, non si ha comunque la vita.
Si deve mangiare per vivere, e senza mangiare si muore. Il cibo altro non è che il segno più profondo di una enorme dipendenza e di una estrema fragilità. Anche se il mangiare porta a momenti di grande comunione (come quelli dello stare insieme, dello scambiarsi i cuori mentre si siede a tavola), anche se può esprimere i valori più alti dell’amore (quali il condividere il pane con chi ha fame), il cibo che si mangia dice che ci manca qualcosa: non abbiamo in noi la vita. Non possiamo vivere se non dipendendo dal cibo e non siamo vivi se non perché per anni – quando eravamo bambini – siamo stati nutriti. L’accettare di non avere in noi la vita significa allora accettare di non poterci salvare da soli. Infine, nonostante i vani tentativi, il pane che possiamo fare con le nostre mani non serve se non per poco tempo: come la manna, è destinato a deperire (cf. Es 16,20: «alcuni ne conservarono fino al mattino; ma vi si generarono vermi e imputridì»).
Solo il pane che ci rimanda con la mente e con il cuore al sacrificio di Cristo è per la vita. Spezzato nell’ultima cena, il suo significato è riposto nel gesto di amore che con esso è stato compiuto. Mangiarlo, significa accettare che Uno è morto per noi, quando eravamo ancora peccatori (cf. Rm 5,8). Spezzarlo ancora oggi, impegna la nostra stessa vita perché sia donato anche a chi non ha pane (quello di tutti i giorni), e non sa ancora che il Padre, che ha la vita, ha mandato il suo Figlio per noi (cf. Gv 6,57).

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