Un APPROFONDIMENTO DEL VANGELO della I domenica di Avvento (Matteo 24,37-44: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo…”), confrontato col racconto di Genesi 6,17-22. A cura di Giulio Michelini
Genesi 6,17-22 – [Dio disse a Noè:] «Ecco, io sto per mandare il diluvio, cioè le acque, sulla terra, per distruggere sotto il cielo ogni carne in cui c’è soffio di vita; quanto è sulla terra perirà. Ma con te io stabilisco la mia alleanza. Entrerai nell’arca tu e con te i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli. Di quanto vive, di ogni carne, introdurrai nell’arca due di ogni specie, per conservarli in vita con te: siano maschio e femmina. Degli uccelli, secondo la loro specie, del bestiame, secondo la propria specie, e di tutti i rettili del suolo, secondo la loro specie, due di ognuna verranno con te, per essere conservati in vita. Quanto a te, prenditi ogni sorta di cibo da mangiare e fanne provvista: sarà di nutrimento per te e per loro». Noè eseguì ogni cosa come Dio gli aveva comandato: così fece.
La storia di Noè occupa i capitoli 6–9 del libro della Genesi. Nella logica del racconto, Noè entra sulla scena per due motivi principali. Come si legge in Genesi 6,5, Dio vede il male compiuto dagli esseri umani, e decide di cancellarli dalla faccia della terra: l’autore sacro ci dice addirittura che il Signore si pentì di avere creato l’uomo. Noè, però – e siamo alla seconda ragione per cui la storia di Noè e della sua famiglia viene narrata – era un uomo «giusto» e «integro» (Genesi 6,8): per la sua rettitudine sopravvive al diluvio, lui con la sua famiglia.
In questa storia, ci colpisce anzitutto l’atteggiamento di Dio. Anche se viene in un primo tempo ritratto come dispiaciuto per avere creato l’essere umano (dunque, non come un Dio non immobile o impassibile, ma deluso dall’uomo, ferito nei suoi affetti, e capace di cambiare idea), dopo avere quasi distrutto l’umanità, promette di non alzare più la mano contro di essa e contro la terra (Genesi 8,21-22); l’arcobaleno, così, diventa il segno della prima alleanza tra Dio e l’Uomo, sigillata unilateralmente da parte del primo nella forma di un arco – strumento da lancio e arma per uccidere – riposto a terra perché non venga mai più usato. A guardare bene, tutto il racconto del diluvio dice che l’umanità non è distrutta, non si estingue dal mondo; anzi, ad essa è data una nuova opportunità, una nuova ripresa, che avrà come protagonisti la famiglia di Noè ma anche, secondo il progetto che Dio aveva già all’inizio della creazione, tutti i popoli della terra (elencati nelle tavole del cap. 10 di Genesi), e, infine, Abramo e la sua discendenza (Genesi 12). In questo modo, la cura di Dio nei confronti dell’umanità peccatrice si risolve non nell’eliminazione di essa, ma nel lavacro delle colpe da questa compiute.
Il peccato infatti aveva ormai portato la terra a una intollerabile impurità, che aveva come conseguenza la mescolanza di piani e il sovvertimento dell’ordine che il Dio della giustizia (Elohim, visto secondo questo attributo, rispetto all’altra caratteristica, la misericordia, che la sinagoga vede invece nel nome Yhwh) aveva voluto mentre creava il mondo. In particolare, secondo quanto commenta la tradizione giudaica, le relazioni sessuali che intercorrevano tra persone della generazione antidiluviana – alle quali allude anche Gesù nell’ultimo suo discorso (Matteo 24,37-39; cfr. Luca 17,26-27) – erano corrotte e la malvagità degli uomini era arrivata a comportamenti osceni: addirittura, pensavano i rabbini, anche allo scambio delle mogli e all’unione dei letti, fino all’accoppiamento con le bestie e alla dispersione del seme per non generare. Ecco perché la terra dovette essere purificata dall’acqua. Come Adamo accettò – dopo il suo peccato, secondo l’antico apocrifo Vita di Adamo ed Eva (6) – la pena di stare nel Giordano per quarantasette giorni (quaranta più i giorni necessari alla creazione) nella speranza che Dio, per questa penitenza, rimettesse i suoi peccati, così la terra rimase per quaranta giorni sotto l’acqua del diluvio (Genesi 8,6).
Noè non è solo sull’arca che ha costruito per la sua salvezza: con lui si trova la sua famiglia. Anche la Prima lettera di Pietro ci ricorda che furono «otto in tutto» le persone salvate dal diluvio (1 Pietro 3,20). È proprio su questo aspetto, riguardante le relazioni familiari, che ci soffermiamo ora: guardando in primo luogo all’arca sulla quale si trova la famiglia di Noè, poi alla questione dei rapporti coniugali durante il diluvio, infine studiando brevemente la storia della nudità di Noè.
L’arca che il patriarca deve costruire è descritta con precisione, e Noè esegue meticolosamente le indicazioni che riceve da Dio per la sua preparazione (Genesi 6,15-16). Come ha notato Raniero Fontana, «indicazioni così precise e tanto dettagliate Dio le darà soltanto per la costruzione del santuario e dei suoi accessori»: anche l’arca, in fondo fu la “tenda del Re”, il suo Tabernacolo, perché «la misura che in futuro verrà utilizzata per la costruzione del Tempio è quella dell’arca di Noè: i cubiti dell’antica misura» (ovvero circa 45 cm), come scritto in 2Cr 3,3. Le due strutture, l’arca e la Dimora nel deserto, «non sono tra loro del tutto lontane: il luogo in cui Dio incontra il suo popolo e in cui mostra la sua Gloria (la Dimora) è anche il luogo (nella forma dell’arca) in cui preserva la vita dell’umanità, e quindi, del futuro del popolo di Israele» (F. Giuntoli). A noi resta da notare una cosa evidente: se l’arca è come il Tabernacolo, allora la famiglia di Noè che lì è custodita – fuori metafora, e al di là di ogni simbolismo, ogni famiglia umana – è investita dello stesso onore che deve essere conferito a ciò che nel santuario evocava la presenza di Dio. Ogni vita creata da Dio (e nell’arca ci sono proprio tutte…) è degna di essere messa in salvo, e di queste la più bisognosa di salvezza è la famiglia degli uomini. Non ci stupisce, allora, che la «cesta» nella quale sua madre riporrà Mosè (Esodo 2,3-5) abbia lo stesso nome, in ebraico (tēbâ), dell’arca di Noè: come si leggerà più avanti nei nostri commenti, anche Mosè rischierà di morire annegato nell’acqua, e in quel caso sarò salvato dalla sua piccola arca e dalla sorellina, Maria.
La famiglia di Noè ritorna alla fine della storia del diluvio, quando è narrato l’episodio della sua ubriacatura e della conseguente sua nudità, vista dal figlio Cam (Genesi 9,18-28). L’ebbrezza del patriarca, inventore del vino, è motivata, nel racconto che leggiamo ora, dall’eziologia della maledizione per Canaan, uno dei nemici di Israele (anche se l’affronto è compiuto da Cam, questi non può essere maledetto, dice il midrash, perché Cam era stato benedetto da Dio stesso: la maledizione passa così a suo figlio, eponimo dei Cananei). A noi interessa però notare due cose. Il vino, anche se causa la perdita dei sensi a Noè, nell’ambito della storia del diluvio è un elemento positivo (diversamente da come era visto nella cultura greca classica), e si colloca subito dopo il segno dell’arcobaleno, ed insieme ad esso, come simbolo di gioia e riconciliazione: dalla terra profanata dal peccato può ora nascere un nuovo frutto, che «allieta il cuore dell’uomo» (Salmo 104,15). Infine, si deve notare ciò che viene insegnato da questo racconto: la colpa del figlio Cam è – secondo i rabbini – quella di avere mancato di rispetto nei confronti del padre, come si evince anche dalla punizione per chi scopre la nudità degli altri (dei propri fratelli: Levitico 20,17). Ma ammirevoli sono gli altri due figli di Noè: fanno di tutto pur di non vedere il padre nudo; in questo modo ci insegnano in modo parabolico come «onorare il padre e la madre» (Esodo 20,12), anche quando questi dovessero mostrare le loro debolezze (nel caso, l’ebbrezza) e, soprattutto, mostrarsi per quello che davvero sono (nelle loro “nudità”).
Riduzione e adattamento da: G. Michelini – G. Gillini – M. Zattoni, La Torà e le relazioni familiari. Lettura esegetica e contestuale di dieci testi biblici, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2014.