• 28 Aprile 2024 0:18

La parte buona

CHE ASCOLTA E METTE IN PRATICA LA PAROLA DI DIO

“Lazzaro, vieni fuori!”. Commento al vangelo della Quinta domenica di Quaresima (Gv 11,1-45), a cura di Giulio Michelini

La pagina del capitolo undicesimo di Giovanni è una delle più note del Quarto vangelo. Sono talmente tante le suggestioni che ne vengono, che non possiamo far altro che soffermarci su un solo punto, l’atteggiamento di Marta e Maria davanti alla morte del fratello, e le loro parole dette a Gesù.

Prima di addentrarci in questa strada, dobbiamo però affrontare una questione preliminare. Dall’interpretazione della rianimazione o risuscitamento di Lazzaro (termini da preferire a quello di risurrezione, in quanto Lazzaro dovrà di nuovo morire, diversamente da Gesù, “il” Risorto) sono nati infatti diversi problemi soprattutto nel confronto coi vangeli sinottici, proprio perché né Matteo, né Marco né Luca danno notizia di questo miracolo. Ciò ha portato alcuni esegeti a dubitare del carattere storico del segno di Lazzaro.

Un punto di partenza per tale questione è il secondo volume dell’opera monumentale Un ebreo marginale dell’esegeta cattolico John Paul Meier. Nell’edizione italiana 640 pagine sono dedicate ai miracoli, e a quello di Lazzaro 58. La conclusione a cui arriva Meier è che il racconto del risuscitamento di Lazzaro «non è una mera creazione dell’evangelista Giovanni, ma riprende un racconto di miracolo che circolava all’interno della tradizione giovannea prima della stesura del Quarto Vangelo». Meier, in particolare, esclude una elaborazione successiva della parabola del ricco epulone narrata da Luca (dove infatti compare un protagonista con lo stesso nome, Lazzaro, che si trova nell’oltretomba), ma raccomanda comunque cautela per quanto riguarda la storicità della pagina. Il massimo a cui si può giungere, secondo l’esegeta, è che «il racconto di Lazzaro rifletta in ultima analisi un episodio accaduto durante la vita del Gesù storico». Meier però poi aggiunge: «Come in altri racconti di risuscitamento, a noi oggi non è più possibile risolvere la questione su che cosa sia realmente accaduto. È possibile che il racconto su Gesù che guarisce un Lazzaro mortalmente malato si sia sviluppato via via fino a diventare un racconto di risuscitamento». Diversamente da altri autori, dunque, per i quali «il racconto può essere semplicemente predicazione cristiana in forma narrativa, che dà forma drammatica alla fede della chiesa in Gesù come Messia e alla propria speranza nella risurrezione dei morti», Meier conclude che l’episodio risale «in ultima analisi a qualche episodio che ha coinvolto Lazzaro, un discepolo di Gesù, e che dai discepoli dello stesso Gesù già durante la sua vita terrena questo episodio sia stato considerato un miracolo di risuscitamento». Questo punto è interessante: anche se è difficile essere più precisi a riguardo di quanto può essere accaduto – anche perché non è possibile il confronto, come si è detto, con altre fonti (di altri vangeli canonici) – il racconto sulla rianimazione di Lazzaro non è semplicemente una catechesi sul ritornare alla vita e sulla risurrezione futura, anche se questa storia si presta ad essere una vera e propria teologia narrata della fede cristiana su questo punto.

Ma finalmente ora possiamo soffermarci su un aspetto particolare della pagina di oggi. Qualche anno fa, nel 1994, con un articolo sulla rivista Biblica scritto da F. Moloney, si è aperto un interessante dibattito a proposito della nostra pagina. Al centro della questione, in verità, non vi sarebbe tanto il miracolo in sé, che con la sua narrazione occupa solo due o tre versetti del capitolo undicesimo di Giovanni, ma il dialogo di Gesù con Marta, o, meglio, la sua “professione di fede”.

Marta è bene caratterizzata in Giovanni, come già in Lc 10,38-42: è un “tipo”, è la donna affaccendata, ma è anche quella che parla molto, e che proclama solennemente la sua fede: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo» (Gv 11,27). Ma a guardare bene il nostro brano, ad emergere con il suo spessore umano, e soprattutto teologico, è l’altra sorella. Questa però sembra “in disparte”, in un ruolo gregario, perché non corre incontro al maestro, come invece Marta: se ne sta in casa, seduta (v. 20). Marta parla, dialoga con Gesù, mentre Maria deve aspettare di essere chiamata dal Maestro per recarsi da lui (v. 29). Maria, soprattutto, non sembra aver nulla di originale da dire: ha già parlato la sorella, e quindi si limita a ripetere quanto noi abbiamo già ascoltato: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (v. 32; le due affermazioni, tradotte in modo identico dalla CEI, sono in realtà leggermente differenti nel testo greco). Maria, infine, non compare più sulla scena del miracolo: ad intervenire, ancora una volta, è Marta, ed è a questa che Gesù deve replicare: «Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?» (v. 40).

Sennonché, si scopre che il racconto della risurrezione di Lazzaro è stranamente incorniciato proprio dalla figura di Maria. È lei di cui si dice al v. 2 (con una prolessi anacronistica, perché quanto detto in realtà non è ancora accaduto) che «era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli»; ma è ancora lei che appare alla fine del brano, quando si dice che «Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in Gesù» (v. 45). Insomma, oltre l’apparenza il ruolo da protagonista nel brano è quello di colei che sembra tacere ed ascoltare, cioè di Maria.

Il verbo con il quale si descrive la chiamata sulla scena di Maria («Il Maestro è qui e ti chiama», v. 28) è importante. Phoneo, chiamare, non solo è il verbo con il quale si descrive anche la chiamata di Lazzaro dal sepolcro («la gente che era stata con lui quando chiamò Lazzaro fuori dal sepolcro», Gv 12,17), ma è anche quello della voce del buon pastore, di cui si parla nel vangelo di Giovanni appena prima del nostro episodio: «Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori» (Gv 10,3).

Questa, allora, è Maria: è la discepola che ascolta la voce del suo Signore, e prontamente, «alzatasi in fretta» (cfr. Gv 11,31) lo segue, tanto da diventare poi testimonianza per gli altri: è da Maria che vanno i Giudei, e per aver seguito lei crederanno in Gesù. Marta parla troppo, sa già tutto, non fa altro che ribadire le sue credenze e le sue aspettative religiose. Si allinea perfettamente con l’opinione dei farisei sulla risurrezione dei morti, ma non capisce che lì si tratta di qualcos’altro. Perché Maria non si aspetta nulla per l’oggi, ha in mente solo «l’ultimo giorno» (11,24).

Come scrive Moloney, la professione di fede di Marta, apparentemente perfetta, viene corretta da Gesù. Non deve essere lei ad insegnare al Maestro cos’è la risurrezione («So che risusciterà nell’ultimo giorno», v. 24): è solo Gesù che lo può dire: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (25-26). Gesù dice che la risurrezione non è solo dopo, ma anche adesso. Adesso risusciterà realmente Lazzaro, adesso il credente in lui trova la vita nuova, adesso quindi c’è bisogno di fede vera.

Maria tornerà, come detto, all’inizio dell’episodio seguente, quello che apre la passione di Gesù. È lì che Maria gioca un ruolo importante. È l’unica che riconosce il significato salvifico della morte del Messia: versa sui suoi piedi dell’olio profumato, quello da usare poi per la sepoltura. Un gesto apparentemente insignificante, ma che tutti ancora ricordiamo: «In verità vi dico che dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto» (Mc 14,9). Maria ha parlato poco, ha capito molto, e ha avuto fede nella salvezza venuta dalla morte di Gesù.