Venerdì 20 dicembre Giulio Michelini ha tenuto la lectio sul Salmo 127, di cui riportiamo il testo, l’audio e il video.
Il prossimo incontro si terrà il 10 gennaio 2020, a Perugia, presso la Sala dei Notari, alle ore 19.00 con il Cardinale Gianfranco Ravasi, con una Lectio su “I Salmi, il libro della fede di Israele e della Chiesa”.
Audio e Video della Lectio di Giulio Michelini sul Salmo 127 Scarica MP3
Testo della Lectio
Il Salmo 127 si trova esattamente al centro di quella piccola collezione di quindici composizioni, dal 120 al 134, che si distingue facilmente nel Salterio grazie alla frase presente nelle soprascritte (i titoli) di questi Salmi: «Canto delle salite». Le salite o ascensioni a cui si riferisce l’autore sacro sono, per la maggior parte degli esegeti (ma vedremo anche un’opinione divergente) le tre feste di pellegrinaggio, Pasqua, Pentecoste e Capanne, alle quali i maschi adulti di Israele erano obbligati a partecipare, recandosi – o meglio, come si dice nella Bibbia, “salendo” (e da qui i Salmi delle salite) – a Gerusalemme. I quindici Salmi si presentano omogenei per tanti elementi: esprimono la fiducia dell’orante in Dio, sono brevi, semplici, facilmente memorizzabili, «con buona probabilità componimenti di epoca postesilica, raccolti in un fascicolo destinato al pellegrinaggio a Gerusalemme» (L. Monti).
Guardando ai Salmi delle salite nel loro insieme, in un colpo d’occhio, si scopre che questi sono stati ordinati con una logica progressiva: i Salmi 120–121 parlano della partenza per il pellegrinaggio; quelli dal 122 al 125 descrivono l’arrivo a Gerusalemme; i Salmi 126–132 sono collegati al soggiorno nella città, mentre i Salmi 133 e 134 esprimono già la preparazione per il ritorno. Il nostro Salmo, allora, all’interno della collezione, doveva essere recitato quando oramai giunti al Santuario si portavano le offerte al Dio di Israele, benedicendolo per la famiglia e i figli.
Prima ancora della benedizione per il dono della famiglia (dal v. 3), però, emergono già dal titolo del Salmo altri elementi, strettamente connessi, riguardanti Salomone, la casa e la città (v. 1). Questi dettagli hanno intrigato l’interpretazione giudaica, che ora prendiamo subito in esame; passeremo poi a un esempio di lettura cristiana del Salmo, e infine torneremo a leggerlo cogliendo alcuni aspetti che ne prepareranno la lettura contestuale centrata sulle relazioni familiari.
Partiamo dunque con la lettura giudaica del Salmo, che prima però rileggiamo: “1 Canto delle salite. Di Salomone. Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori. Se il Signore non vigila sulla città, invano veglia la sentinella. 2 Invano vi alzate di buon mattino e tardi andate a riposare, voi che mangiate un pane di fatica: al suo prediletto egli lo darà nel sonno. 3 Ecco, eredità del Signore sono i figli, è sua ricompensa il frutto del grembo. 4 Come frecce in mano a un guerriero sono i figli avuti in giovinezza. 5 Beato l’uomo che ne ha piena la faretra: non dovrà vergognarsi quando verrà alla porta a trattare con i propri nemici”.
La presenza del nome del re Salomone ha interessato a lungo i saggi ebrei, perché diversamente da alcuni altri Salmi dello stesso gruppo, attribuiti a Davide («Canto delle salite. Di Davide»: Sal 122–124; 131; 133), il 127 sarebbe stato scritto da Salomone che – diversamente dal padre, che aveva fallito nel suo progetto di costruire un tempio (cf. 2Re 7,1-17) – riesce invece a edificare il santuario di Gerusalemme. Ecco perché in questo Salmo il riferimento alla bayt, “casa”, per i rabbini è al Tempio stesso, quello alla “città” è a Gerusalemme, e i “figli” che compaiono al v. 3 altri non sarebbero che i tanti discendenti di Salomone, avuti dalle mogli del suo numeroso harem (secondo 1Re 11,3, addirittura «settecento principesse per mogli e trecento concubine»).
Ma se questo fosse il contesto in cui leggere il Salmo, perché poi questo continua mettendo in guardia dal costruire “invano” (avverbio ripetuto in modo insistito nel Salmo, per 3x) il Tempio e la città (vv. 1b-2)? Una spiegazione viene proprio dalla tradizione giudaica, che legge la soprascritta «di Salomone» nel seguente modo: «detto da Davide in riferimento a Salomone». Questa interpretazione, che parte tra l’altro da una traduzione grammaticalmente accettabile, apre un orizzonte molto interessante, che riguarda proprio il Tempio di Gerusalemme ma anche la relazione di un padre, Davide, col figlio, Salomone.
Ecco come il grande commentatore medievale Rashi riassumeva la discussione sul Salmo 127: “Cantico delle salite. Per Salomone. Questo cantico lo disse David per Salomone suo figlio, poiché nello Spirito santo previde che avrebbe costruito il santuario ma che, nello stesso tempo, avrebbe anche sposato la figlia del Faraone. È questo il motivo per cui si dice ‘Causa d’ira e di collera è stata per me questa città fin da quando la edificarono’ (Ger 32,31). Infatti questo salmo vuole dire: Perché, figlio mio, costruire una casa se poi ti distogli dal Luogo? Siccome egli non si compiace di lei, ‘invano vi faticano i costruttori’ del tempio” (traduzione di A. Mello).
Rashi condensa la lunga disputa sviluppatasi all’interno della tradizione rabbinica attorno al matrimonio di Salomone con la figlia del Faraone, che secondo i Saggi d’Israele sarebbe stato celebrato proprio la sera precedente la dedicazione del Santuario di Gerusalemme (cf. 1Re 3,1: «Salomone divenne genero del faraone, re d’Egitto. Prese la figlia del faraone, che introdusse nella Città di Davide, ove rimase finché non terminò di costruire la propria casa, il tempio del Signore e le mura di cinta di Gerusalemme»). È evidente la problematicità di questo matrimonio – come anche gli altri contratti da Salomone con centinaia di principesse straniere – che se da una parte permetteva di stringere alleanze con i paesi vicini, però, proprio come si legge nella Scrittura, conduceva il popolo all’idolatria: «Il re Salomone amò molte donne straniere, oltre la figlia del faraone: moabite, ammonite, edomite, sidònie e ittite, provenienti dai popoli di cui aveva detto il Signore agli Israeliti: “Non andate da loro ed essi non vengano da voi, perché certo faranno deviare i vostri cuori dietro i loro dèi”» (1Re 11,1-2). I rabbini, tra l’altro, rincarano la dose immaginando che la gioia per le feste di nozze di Salomone con l’Egiziana fu addirittura più grande di quella per l’inaugurazione del Tempio.
La conclusione di questo ragionamento (di cui non possiamo riportare tutti i passaggi, che sono ben illustrati – per chi desiderasse approfondirli – da Gianpaolo Anderlini nel suo commento ai Salmi, come anche nel volume Le leggende degli Ebrei di Louis Ginzberg) è che nelle nozze con la figlia del Faraone i Maestri ebrei vedono addirittura le premesse della futura distruzione del Santuario di Gerusalemme, e spiegano così l’eccedenza dell’avverbio shawe, “invano” in questo Salmo (un termine legato a una parola più nota della Bibbia, sheol). La lettura rabbinica è retrospettiva, ovvero proietta quello che è accaduto con la caduta del Tempio di Salomone (avvenuta nel 586 a.C. ad opera degli Assiri-Babilonesi), a cause precedenti, addirittura legate alla dinastia davidica e all’infedeltà alla Legge di Dio. E tutto questo semplicemente a partire dalla soprascritta “Di Salomone” (o, come visto, “Per / a proposito di Salomone”)!
Dopo l’interpretazione giudaica, passiamo brevemente all’approccio cristiano al Salmo 127. L’antica lettura cristiana, meno elaborata di quella giudaica, vede la “casa” di cui parla come la Chiesa, mentre i costruttori che vi lavorano sarebbero «coloro che nella Chiesa predicano la parola di Dio, tutti i ministri dei sacramenti di Dio» (Agostino, Esposizione sui Salmi). Secondo la stessa logica, è lo Spirito Santo il “custode” di Israele che inabita il credente, perché custodisca i beni che vengono da Dio, in quanto «non è nel potere dell’anima umana poterli conservare da sola. E perché? Ci sono molti ladri e fitte tenebre, e il demonio sta ancora complottando contro di noi. Come potrà dunque custodirli? Grazie allo Spirito […]. Questo è il nostro muro, il nostro castello, il nostro rifugio» (Giovanni Crisostomo, Omelie su 2Timoteo).
Ma commentatori moderni vedono non solo applicazioni ecclesiologiche, ma anche cristologiche. Secondo la bella lettura di un monaco di Bose, Ludwig Monti, il Salmo può illuminare le parole di Gesù nel Discorso della montagna, allorquando insegna a non preoccuparsi della propria vita, ma di confidare nella provvidenza (cf. Mt 6,25-32): “Se si lascia regnare Dio sulla propria persona, come Cristo ha saputo e voluto fare, il resto verrà da sé; e si comprenderà il senso di un altro detto estremo di Gesù: «Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). È lui, e solo lui, che «costruisce in noi ciò che è buono e custodisce ciò che edifica». Ovvero, «sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme a Gesù Cristo» (cf. 1Ts 5,10): questa la felicità che può rendere dolce ogni possibile fatica che la vita umana e cristiana porta con sé”.
Abbiamo visto come un Salmo così semplice conduca, nella tradizione giudaica, a causa di qualche dettaglio apparentemente insignificante, a spiegazioni complesse; nella lettura cristiana, a una applicazione ecclesiale e spirituale. Ma poiché il sostantivo bayt, “casa”, che apre il nostro Salmo, ha anche un significato più ordinario, e significa anche “famiglia”, siamo autorizzati a rileggere il Salmo 127 semplicemente da un altro punto di esplorazione, che non tocca la “grande storia” di re, santuari e capitali di regni, e nemmeno quella “casa” spirituale che è la Chiesa: ci riferiamo alla prospettiva feriale e semplice della storia di ogni famiglia che abita una casa, edificio fisico ma anche fatto di relazioni, nella quale si sperimenta il lavoro duro e crescono i figli. Proviamo semplicemente a introdurre questa interpretazione, che verrà approfondita dalla dott.sa Zattoni nelle righe che seguiranno.
La lettura in chiave familiare del Salmo in verità è già stata intrapresa da diversi esegeti, che non potevano non sottolineare il codice domestico in esso contenuto. Più precisamente, giova segnalare le interpretazioni di chi vede la composizione come un poema augurale scritto per coloro che, con il matrimonio, davano inizio a una nuova famiglia, e quella di Hans Schmidt (in un commento ai Salmi scritto negli anni Trenta del Novecento) che invece vede il Salmo come un canto di benedizione per un lieto evento in famiglia: «La seconda parte del poema (vv. 3-5) non lascia dubbi: una giovane coppia di sposi (v. 4) ha dato alla luce un figlio. Sembra che questo non sia il primo, ma il secondo o il terzo, poiché il Salmo sottolinea quanto sia bello avere già molti figli nella propria giovinezza». In questa stessa chiave lo stesso esegeta vede anche un leggero riferimento sessuale alla frase del v. 2, «al suo prediletto egli ne darà nel sonno», intendendo con tale espressione la benedizione divina per il talamo nuziale.
Altri elementi ancora fanno pensare che il Salmo si riferisca a una situazione domestica, a partire dalla frase “costruire la casa” del primo versetto, che può significare il costruire una vera e propria abitazione per sé – un edificio di pietre (come fece Giacobbe in Gen 33,17) –, oppure farsi una famiglia (come in Pr 24,27) o istituire una dinastia (come in 2Sam 7,27) o dare origine a un popolo (Rt 4,11). Non vi è dubbio, osserva Gianfranco Ravasi, che il paradigma dominante sia quello dell’intimità, perché è «nel cerchio “casa-città” che si condensa tutta la vita nella sua duplice accezione familiare e sociale: la costruzione-generazione, alzarsi, mattino-sera, mangiare, dormire […]. Nell’interno di questo cerchio è inclusa anche l’esistenza fisiologica fatta di cibo, di sonno, di fatica. Tutto l’arco dell’azione e della stasi, del giorno e della notte è coordinato attorno a questo ambito vitale fatto di spazio esistenziale, cioè la casa e la città». Ma non mancano i problemi anche per questa lettura, che di fatto non tiene insieme tutto il componimento.
E così scopriamo che è davvero difficile dare una sola spiegazione, univoca e certa, del Salmo, forse perché per le simbologie che contiene si prestano a molteplici letture: storiche, ecclesiologiche e spirituali, contestuali relazionali. Non deve stupire perciò che tra i più recenti commenti al Salmo si insista anche sulla sua dimensione storica e politica. Se il componimento è stato scritto dopo l’esilio babilonese, e veniva recitato quando finalmente il Secondo Tempio (non quello di Salomone, ma di Ezdra e Neemia) era stato costruito, e si poteva tornare in pellegrinaggio a Gerusalemme, allora l’edificare una casa e vivere in una città sicura, protetta da un custode, poteva alludere all’impegno civico descritto «nella vita quotidiana di un popolo che deve lavorare duro per sopravvivere ma che vive una vita realizzata quando sa di essere amato da Dio» (F.-L. Hossfeld – E. Zenger; si veda, su questo, anche il già citato Ravasi: «Il Sal 127 è un carme unitario sapienziale, centrato sull’efficacia della provvidenza divina nell’esistenza sociale e personale e trasferito poi nella collana dei salmi graduali»).
Ma non si può concludere la nostra riflessione senza segnalare una recente interpretazione, che parte (ancora una volta) dall’unità del Salmo. Già da tempo si era notato le due parti in cui si può suddividere sono irriducibilmente scollegate: i vv. 1b-2, che insistono sull’inutilità di qualsiasi lavoro senza l’aiuto di Dio, sarebbero difficilmente connessi ai vv. 3-5, che invece trattano di un uomo che genera figli nella sua giovinezza. Tante sono le soluzioni che sono state avanzate per difendere l’unità del Salmo; quella proposta da Elie Assis, docente all’Università Bar-Ilan di Israele, fa leva sul contesto storico in cui nascerebbe il Salmo, che non è ascrivibile al genere sapienziale (come riteneva – si veda poche righe sopra – anche Ravasi), perché sarebbe stato composto per celebrare il “ritorno” a Gerusalemme. Sarebbe questo il vero senso dell’espressione salita o ascensioni, secondo quanto si legge anche in uno dei libri che trattano del ritorno dall’esilio babilonese: Esdra «aveva fissato la partenza (in ebraico: la salita) da Babilonia per il primo giorno del primo mese, e il primo del quinto mese arrivò a Gerusalemme, poiché la mano benevola del suo Dio era su di lui» (Esd 7,9). Il Salmo sarebbe dunque stato composto nello stesso sfondo storico, il ritorno a Sion, e – ma questo l’avevano già puntualizzato i rabbini – la “casa” sarebbe il Tempio da ricostruire (e ciò giustificherebbe il riferimento a Salomone, al quale si doveva il primo santuario).
Perché dunque l’insistenza sull’inutilità di costruire, “invano”, senza Dio? Perché proprio così era accaduto – come si legge ancora nel libro di Esdra (3,8–4,4) – quando si tentò senza riuscirvi di costruire il santuario, e l’operazione fallì, per poi riprendere finalmente anni dopo (cf. Esd 5,1-6). Il Salmo 127, così, nella sua seconda parte, sembra riprodurre in termini poetici quanto si trova nel libro del profeta Aggeo, che intorno al 520 a.C. sprona i suoi correligionari dicendo loro: «Avete seminato molto, ma avete raccolto poco; avete mangiato, ma non da togliervi la fame; avete bevuto, ma non fino a inebriarvi; vi siete vestiti, ma non vi siete riscaldati; l’operaio ha avuto il salario, ma per metterlo in un sacchetto forato» (Ag 1,6). La tesi di Elie Assis sembra davvero interessante, e se da una parte lascia che il Salmo parli a tutti, a tutte le famiglie che vogliono costruire un futuro, dall’altra però ci invita a ricordare la storia e a guardare alla città, e anche al Tempio, che insieme alla propria casa hanno bisogno sempre di essere custoditi non solo da uomini, ma da Dio.