Commento al vangelo della XXXI domenica del Tempo Ordinario (Mc 12,28b-34)
In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l'unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all'infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l'intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
Commento a cura di Giulio Michelini
Una diatriba teologica, che si apre con Gesù interrogato dai suoi antagonisti. Chi gli sta davanti è ora uno dei farisei, che si rivolge al Maestro confortato dal fatto che questi - come si apprende dal parallelo di Mt (23,34) - ha appena ammutolito i loro avversari (sul piano dottrinale), i sadducei. La questione che pone a Gesù è tipica delle discussioni tra esperti della Torà: esiste o no un comandamento, tra i 613 contati poi più tardi dai rabbini, dal quale dipendono (“sono appesi”) tutti gli altri? Nell’Antico Testamento erano già presenti diverse formulazioni di precetti in forma sintetica (p. es., in Sal 15 sono elencati 11 comandi, in Is 33,15-16 ce ne sono 6, e così via), che poi erano stati elaborati dai saggi d’Israele, e venivano suddivisi – in particolare dalla scuola di rabbi Hillel – in “pesanti” o “leggeri”. Anche Gesù sembra accettare questa impostazione e riconosce che vi sono precetti “minimi”, che però non possono essere tralasciati.
La prima parte della risposta di Gesù rimanda alla preghiera dello Shemà dal libro del Deuteronomio, che nel testo ebraico suona: «Ascolta (Shemà), o Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze» (Dt 6,4-5). Questa formula che condensa il credo di Israele non solo serviva per la preghiera, ma era oggetto di studio e di discussione, come è testimoniato dall’episodio di rabbi Aqiba che muore martire dei romani, intorno al 135 d.C., recitandola: «Quando [i Romani] condussero al martirio R. Aqiba, era l’ora della lettura dello Shemà; gli lacerarono le carni con dei pettini di ferro, ma lui rivolgeva il pensiero ad accettare con amore la sovranità del Regno celeste. I suoi discepoli gli chiesero: “Maestro, perfino ora [continui a recitare lo Shemà]?” “Per tutta la vita”, rispose, “ero avvilito delle parole e con tutta la tua anima (Dt 6,5) che significa: quando anche Dio ti togliesse la vita tu devi amarlo e pensavo: quando avrò l’occasione di adempiere (questo comando)? E ora che ne ho l’occasione, non dovrei adempierlo?» (Talmud babilonese, Berakhot 61).
Questa formula è caratterizzante il monoteismo ebraico, e afferma che non ci sono altri dèi tranne Dio. Affermazione apparentemente scontata, ma è quanto di più grande abbia potuto produrre il pensiero ebraico: il monoteismo. È da questa credenza che derivano le loro dottrine principali del Cristianesimo prima, e dell’Islam poi. Il pensiero greco, così ricco nelle sue sfumature e nella sua produzione filosofica e letteraria, non era invece stato capace di giungere a tanto. La discriminante forse risiede nel fatto che mentre i filosofi cercavano Dio soprattutto attraverso il ragionamento, Israele «fa esperienza del suo Dio e lo conosce non in modo astratto – come un essere supremo, buono, giusto – ma in forma concreta: un Dio che agisce nella storia, si prende carico del suo popolo e lo salva. Yhwh è colui che li ha condotti fuori dall’Egitto e ha concluso con loro un’alleanza, facendoli diventare suo popolo» (A.E. Carmona, La religione ebraica. Storia e teologia). Ecco che, in qualche modo, aveva ragione Pascal a parlare di una differenza tra il Dio semplicemente “pensato” e un Dio vicino, conosciuto: «Dio d’Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti».
Certo, anche Omero scriveva che gli dèi erano presenti continuamente nella vita degli uomini, come dimostrato nelle storie narrate dall’Iliade o dall’Odissea; ma questa presenza era qualitativamente diversa dalla presenza di Yhwh nella storia del suo popolo. Non solo gli dèi omerici, come scrive lo storico della filosofia Giovanni Reale, «sono causa, oltre che dei beni, anche dei mali degli uomini: non danno a loro solo buoni consigli, ma altresì cattivi intendimenti, e li traggono in inganno in maniera proditoria»; essi «hanno una “ambivalenza” morale strutturale, nella quale bene e male risultano mescolati, se non addirittura “indistinti”: agli dèi veniva attribuita l’intera gamma dei vizi degli uomini, addirittura ingranditi». Non così per il Dio di Israele. Egli è totalmente Altro, e il peccato originale di Israele è proprio il tentativo di assimilarlo a sé, di renderlo “vicino” fino al punto da raffigurarlo come un vitello d’oro.
Ma vi è ancora di più. «Il Dio aristotelico – prosegue Reale – proprio per la sua distanza ontologica strutturale dall’umano, pensa solo ciò che è perfetto, ossia se medesimo, e non ha diretta comunicazione con l’uomo, se non come modello emblematico di perfezione». Il Dio di Israele, invece, è sì infinitamente lontano, Altro e Diverso, ma anche “vicino” e presente: «Quale grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (Dt 4,7).
Ecco perché questo Dio può essere amato. Non si può amare un’idea, ma solo Qualcuno che si può conoscere, ed incontrare. Tutto questo ci pare di ravvisarlo nello Shema’, la preghiera più importante di Israele, che anche Gesù avrà recitato nella sua vita almeno tre volte al giorno. Lì si dice, lo leggiamo anche nel vangelo di oggi, che Dio è l’Unico e deve essere amato. E se questo avviene, allora l’esperienza d’amore per Dio porta inevitabilmente all’amore per il prossimo. Si capisce allora la ragione per cui alla domanda dello scriba Gesù risponde citando i due comandamenti dell’amore verso Dio (Dt 6,4-5) e verso il prossimo (Lv 19,18), collegando strettamente i due comandi.
Si è detto sopra che il Dio di Aristotele è diverso da quello di Israele. Ora capiamo perché per la comunità di Marco, o quella dell’ambiente (Roma?) di Marco in cui il suo vangelo veniva proclamato o letto, le parole di Gesù erano fondamentali. «Per i neoconvertiti che vivevano in un ambiente politeistico in cui venivano offerti sacrifici a divinità di ogni genere, era importante assorbire l’idea che il Padre di Gesù Cristo è il solo e unico Dio e che l’amore di questo Dio e l’amore del prossimo vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici. Dato che il monoteismo ebraico era ammirato da molti non-giudei, la comunità di Marco poteva ben appellarsi a questo insegnamento di Gesù nella sua missione alle nazioni. Poteva anche vedere nell’impegno di adempiere il doppio comandamento dell’amore l’equivalente dell’adempimento di tutta la Legge – forse in base alle indicazioni tracciate da Paolo nella sua lettera ai Romani: Chi ama il prossimo ha adempiuto la Legge… dunque il pieno compimento della Legge è la carità (Rm 13,8.10)» (Donahue - Harrington).
A proposito di goyim, pagani che ammiravano l’ebraismo, ci torna alla mente una leggenda giudaica, che spiega bene il collegamento tra l’amore per Dio e quello per il prossimo, di cui parla Gesù. Siamo all’interno di una storia che vede come protagonista rabbi Hillel (fine I secolo a.C. – inizio I secolo d.C.): «Un pagano si presentò a Shammai – un rabbino antagonista di Hillel – e gli disse: “Convertimi, a condizione di imparare tutta la Torà nel tempo in cui si può stare ritti su un solo piede”. Shammai lo mandò via col bastone che aveva in mano. Si presentò allora a Hillel, il quale lo convertì (dicendogli): “Ciò che a te non piace, non farlo al tuo prossimo. Questa è tutta la Torà, il resto è commento, va’ e studia”» (Talmud babilonese, Shabbat 31). Ancora una volta, come per la cornice dove si narra la parabola del buon Samaritano (Lc 10), l’amore per Dio e quello per il prossimo sono inscindibili.
La seconda parte della risposta che Gesù dà al fariseo che lo interroga è meno scontata, perché, a guardar bene, mentre il fariseo gli chiede di un solo comandamento, Gesù risponde citandone un altro, quello sull’amore per il prossimo. L’amore per il prossimo anche dalla tradizione precedente a Gesù veniva considerato un precetto fondamentale, che – insieme al precetto dell’amore per Dio – condensava tutta la Torà, come è dimostrato nell’episodio di rabbi Hillel di cui sopra. Questa seconda parte della risposta di Gesù è tratta da Lv 19,18, «Non vendicarti e non serbare rancore ai figli del tuo popolo. Ama il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore». Gesù in questo modo collega i due comandi, coniugando in modo indissolubile l’amore di Dio con quello per il prossimo. Per Gesù i due precetti uniscono il cielo alla terra, l’uomo a Dio, l’uomo all’uomo: l’amore “verticale” (amare Dio) e quello “orizzontale” (amare il prossimo) non possono essere più separati. Da questa risposta, pertanto, sembra che non possa esistere l’amore per Dio senza quello per il prossimo. Il primo comandamento implica il secondo, e il secondo presuppone il primo.
Oggi il contesto culturale nel quale viene annunciato il Vangelo non ha più a che fare col politeismo greco, ma con gli idoli pagani. Anzi, l’affermare che a rendere libero l’uomo è l’amore per Dio e gli altri, e non la ricerca a tutti i costi del successo, o del denaro, o del piacere… questo annuncio è più che mai urgente e attuale. Nessuno crede più all’esistenza di molte divinità, ma gli idoli sono sempre a portata di tutti.