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Andare di nuovo a Betlemme (Commento al vangelo della Messa di Natale, dell'aurora): Lc 2,15-20

24/12/2023

Finalmente, i pastori arrivano alla grotta. È quanto ascolteremo nella lettura evangelica della messa dell’aurora nel Natale del Signore. Nel Vangelo della notte, come sappiamo, l’annuncio rimane sospeso, e con questo anche i lettori, che dopo l’invito dell’angelo non sanno cosa accadrà… Andranno i pastori a Betlemme? Rimarranno invece lì dove sono a custodire il gregge?

Chi conosce anche l’altro racconto del Vangelo dell’infanzia di Gesù, quello di Matteo, sa che la risposta non è scontata. Il re Erode, i sapienti e gli scribi di Gerusalemme, ad esempio, anch’essi hanno ricevuto un annuncio, questa volta dai magi: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» (Mt 2,2). Ma non si muovono: dalla vicina città di Gerusalemme, per andare a Betlemme, non si sposta nessuno. Quelli che ci arrivano vengono invece da molto lontano.

Dei pastori, che «erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all'aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge» (Lc 2,8), poco sappiamo, ma qualcosa ce la possiamo immaginare. Come tutti gli adulti maschi delle tribù degli Ebrei, dovevano avere poca dimestichezza coi bambini, abituati com’erano a pensare che si trattasse di cose di mogli. C’era poi una difficoltà oggettiva nelle parole ascoltate dall’angelo, che invitavano ad entrare in una casa dove una puerpera aveva appena dato alla luce un figlio («Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia»; Lc 2,12). Difficilmente un ebreo avrebbe osato entrare in un luogo dove una donna aveva partorito, secondo quanto è scritto nel Levitico (12,1-4): «Se una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà impura per sette giorni; sarà impura come nel tempo delle sue mestruazioni. L’ottavo giorno si circonciderà il prepuzio del bambino. Poi ella resterà ancora trentatré giorni a purificarsi dal suo sangue; non toccherà alcuna cosa santa e non entrerà nel santuario, finché non siano compiuti i giorni della sua purificazione». L’impurità, in questa antica simbolica, non significa certo qualcosa di “sporco”, di “peccaminoso”, quanto piuttosto esprime la credenza che il sangue derivante dal parto (come ogni sangue, del resto) è legato al mistero della vita, che come tale può venire solo da Dio, mistero inavvicinabile. È impuro ciò che pericolosamente porta nella sfera di Dio.

Luca ci dice che tanti ostacoli si oppongono all’invito dell’angelo. I pastori devono avere il coraggio di lasciare il gregge o di affidarlo ad altri; devono seguire antichissime regole di purità; devono, più di ogni altra cosa, “perdere la faccia” decidendo di andare a vedere un bambino. Forse perché i pastori non erano in grado di osservare come richiesto le regole di purità, forse perché hanno assistito a un meraviglioso annuncio di gioia, sta di fatto che all’invito dell’angelo, credono.

Forse anche perché erano, nonostante tutto, avvezzi alle cose “sacre”. Nelle antiche fonti rabbiniche infatti esistevano delle curiose disposizioni a riguardo di quelle pecore o quei montoni che fossero stati trovati dispersi a pascolare in una zona «tra Gerusalemme e Migdal-Eder» (Shekalim 7:4). Il nome Migdal-Eder, che significa “Torre del gregge”, è noto anche alla Bibbia, perché lì Giacobbe piantò la tenda dopo la morte di Rachele (cf. Gen 35,21: «Poi Israele partì e piantò la tenda al di là di Migdal-Eder»), ma il fatto importante è che questa località doveva trovarsi nemmeno a due km. da Betlemme, come san Girolamo attesta (PL 2: 898, 900). Se un animale di un gregge fosse stato trovato in quell’area tra Gerusalemme e Migdal-Eder (che comprendeva anche Betlemme), si legge in quel documento, era destinato al Tempio, per un olocausto (se un montone o un ariete), oppure per l’offerta detta comunemente “di pace” (se una pecora). Infatti, secondo le fonti rabbiniche, e ancora al tempo in cui nasce Gesù, non era permesso a nessun pastore tenere alcun gregge nella «terra di Israele», per l’effetto negativo che questi animali avevano sull’agricoltura. Vi era però un’eccezione, proprio quella riguardante il territorio ora ricordato, perché, come è evidente dal sistema templare antico, per i sacrifici a Gerusalemme servivano molti animali, che non potevano essere stanziati lontano dal Tempio. Per questa ragione, si presumeva che le pecore e gli altri animali del gregge che fossero stati trovati tra Gerusalemme e Migdal-Eder fossero di proprietà del Tempio di Gerusalemme.

Non ci stupisce, insomma, nel contesto delle testimonianze storiche rabbiniche, che ci fossero alcuni pastori poco distanti da Betlemme, stanziati con il loro gregge, pronti ad ascoltare le voci degli angeli, come scrive Luca. E «non è improbabile – scrive in un suo commento Leon Morris – che i pastori stessero pascolando greggi destinati ai sacrifici templari» (L. Morris, The Gospel According to Luke. The Tyndale New Testament Commentaries, Eerdmans, Grand Rapids, MI – Cambridge 1988, 93). Anzi, si potrebbe arrivare a dire che, per il fatto che custodivano animali destinati al Tempio, potessero essere particolarmente “recettivi”. (Anche se sappiamo che nelle fonti giudaiche – ma così anche, ad es., per Filone – i pastori sono spesso descritti come uomini disonesti, non osservanti della Legge: Luca starebbe allora sottolineando che anche i disprezzati sono destinatari dell’Evangelo).

In ogni caso, ancora più interessante è il fatto che, ancora nelle fonti giudaiche antiche, la località di Migdal-Eder venga ad un certo punto associata ad un re Messia: è da lì che il Messia, proprio vicino a Betlemme, si sarebbe dovuto manifestare. L’antica spiegazione di Gen 35,21 («Poi Israele partì e piantò la tenda al di là di Migdal-Eder») era infatti la seguente: «Giacobbe viaggiò e piantò la tenda presso la “Torre del gregge”, il luogo dal quale il Re Messia si rivelerà alla fine dei giorni» (Targum Pseudo-Jonathan di Gen 35,21).

I pastori, dunque, rischiano, e vanno a Betlemme: «Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il cielo, i pastori dicevano l’un l’altro: “Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”» (Lc 2,15). I pastori assumono qui il ruolo dei credenti, a riprova che la teologia di Luca provvede un posto speciale – nel Regno di Dio – ai poveri, agli umili, agli storpi, ai ciechi (cf. Lc 14,21). Solo questi sono capaci di accettare l’invito alla festa, gli altri sottovalutano la grande gioia di un incontro: alla grande cena preparata da Dio (Lc 14,14), ci andranno solo quelli che hanno fame: i sazi hanno già il loro succulento cibo pronto nelle loro case.

Anche quest’anno bisogna decidere se andare un’altra volta a Betlemme. La scelta non è da poco. Significa rimettersi in gioco, ancora una volta, e credere alle parole di un angelo. Comporta – come già per i pastori – doversi alzare, doversi muovere, lasciare qualche sicurezza e fare un tratto di strada, magari in mezzo a qualche pericolo. È un atto di grande fede. Ognuno sa cosa significhi andare a Betlemme, ciascuno intuisce in cuor suo se valga la pena tornarci. Una cosa è certa: tra le tante proposte che il mondo ci offre (vieni di qua, vai di là, fai questo e compra quello), l’invito dell’angelo ha come esito la gioia. Nulla sappiamo dei pastori dopo l’incontro, Luca ci dice soltanto che «andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia; se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro» (Lc 2,16.20). Nonostante tutto, vale la pena riprovare, anche quest’anno. Il messaggio è chiaro: andando a vedere un bambino, troveremo anche noi Dio.

Giulio Michelini

Inserimento contenuto nel sito a cura di LaParteBuona

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