LE VETRATE DI MARC CHAGALL NELLA SINAGOGA DELL’OSPEDALE HADASSAH di GERUSALEMME
- – Vita di Marc Chagall
– Marc Chagall (Vitebsk 1887 – Saint-Paul-de-Vence 1985) pittore bielorusso di origine ebraica chassidica, naturalizzato francese.
Il suo vero nome era Moishe Segal, un cognome levita, mentre il suo nome russo era Mark Zacharovič Šagal, secondo la trascrizione francese: Chagall.
Nasce a Vitebsk da una famiglia ebraica dove si parlava yiddish e il giorno stesso della sua nascita, il villaggio fu attaccato dai cosacchi e la sinagoga venne data alle fiamme. Da allora l’artista, rievocando le proprie origini, usava dire: “Io sono nato morto”. Ben presto si trasferisce a San Pietroburgo e poi a Parigi per essere più vicino alla comunità artistica di Montparnasse. Durante l’occupazione nazista in Francia fuggì prima in Spagna e Portogallo e successivamente negli Stati Uniti; infine, nel 1949, si stabilì in Provenza. Nel 1957 si recò in Israele, dove nel 1960 creò una vetrata per la sinagoga dell’ospedale Hadassah e nel 1966 progettò un grande affresco per il nuovo parlamento. Durante la guerra dei sei giorni l’ospedale venne bombardato e le vetrate di Chagall rischiarono di essere distrutte, ma solo una venne danneggiata, mentre le altre vennero messe in salvo. Chagall morì a 97 anni, a Saint-Paul-de-Vence, il 28 marzo 1985.
L’artista fu affascinato sin dagli anni giovanili dalla Bibbia, da lui considerata come la più importante fonte di poesia e di arte, ma è solo a partire dagli anni ‘30 che se ne interessò profondamente e iniziò a studiarla con dedizione, tanto da intraprendere appositamente un viaggio sui luoghi delle vicende narrate dai Testi Sacri, tra Egitto, Siria e Palestina: da questo momento in poi, la Bibbia occuperà l’intera produzione artistica dell’artista.
Nel 1973 si inaugura a Nizza il Musée National du Message Biblique, costituito dalla donazione dell’artista di oltre trecento opere fra dipinti, disegni, incisioni, sculture, ecc..
Le sue prime vetrate sono quelle per la Cattedrale di Metz (1959-68) e le piccole vetrate per la chiesa di Notre-Dame-du-Toute-Grace a Plateau d’Assy. Seguono, poi, le vetrate per la Sinagoga dell’ospedale di Hadassah a Gerusalemme (1960), quelle per la cattedrale di Reims (1974) e per la Cappella dei Penitenti a Sarrebourg (1975). Nel coro della chiesa di Fraumünster di Zurigo realizza un ciclo di cinque vetrate e un rosone (1979-80), mentre la sua ultima opera sono le nove vetrate per la chiesa di S.Stefano a Magonza (1978-85).
“La vetrata sembra molto semplice: la materia, la luce. Per una cattedrale o una sinagoga lo stesso fenomeno: una realtà mistica che attraversa la finestra. Per me una vetrata è una parete trasparente posta tra il mio cuore e il cuore del mondo”. (M. Chagall)
La Sinagoga di Hadassah
Le vetrate di Chagall si trovano nella Sinagoga dell’Hebrew Medical Center di Kiryat Hadassah nei pressi di Ein Karem, poco distante da Gerusalemme. Hadassah è un’organizzazione delle donne sioniste d’America, fondata nel 1912 da Henrietta Szold, che promuove programmi di educazione ebraica, informazioni generali sul sionismo e attività per giovani.
L’architettura che Chagall doveva affrontare aveva uno schema molto semplice, poichè la sinagoga presenta una pianta quadrata sormontata da una lanterna. Il piano della sinagoga è interrato e le vetrate sorgono all’altezza della pavimentazione esterna del Centro Medico.
Dodici aperture a tutto sesto, poste in gruppi di tre sui quattro lati dell’edificio e orientate verso i quattro punti cardinali le danno luce. La parte dritta è quella esterna che si può vedere solo di notte quando la sinagoga è illuminata da lampade pensili, mentre di giorno si possono ammirare solo dall’interno, illuminate dalla luce naturale.
La grandezza della vetrata di ogni singola tribù è di m.3,38 x m.2,51.
Il problema plastico che si proponeva a Marc Chagall era di natura diversa da quello delle cattedrali, poiché l’unico imperativo liturgico relativo all’edificazione di una sinagoga è la necessità di finestre, collegate al succedersi delle tre preghiere del mattino, del mezzogiorno e della sera, così come sono riferite nel libro di Daniele: “Daniele, quando venne a sapere del decreto del re, si ritirò in casa. Le finestre della sua stanza si aprivano verso Gerusalemme e tre volte al giorno si metteva in ginocchio a pregare e lodava il suo Dio, come era solito fare anche prima.” (Dn. 6,11)
Gli arredi della sinagoga sono stati creati tra il 1981 e l’82 dall’artista israelo-americana Aviva Green che è conosciuta per la sua pittura astratta e l’arte sinagogale e la scritta stilizzata in ebraico sul coperchio dell’arca dice: “Conosci prima ciò per cui tu esisti”.
Esposte nel 1961 a Parigi, al Musée des Arts Décoratifs, e poi a New York, le dodici vetrate vengono inaugurate a Gerusalemme il 6 febbraio 1962 in presenza dell’artista e di sua moglie, di Charles e di Brigitte Marq, i maestri-vetrai, durante la celebrazione del Golden Anniversary di Hadassah (cinquantesimo anno della fondazione di Hadassah).
Le vetrate
“La Sinagoga sarà una corona per la ‘Regina dei giudei’ e le finestre saranno i gioielli di tale corona…” (Marc Chagall)
Con questa affermazione l’artista vuol certamente fare riferimento proprio al nome ‘Hadassah’, che è il nome ebraico della regina Ester, colei che ha salvato dallo sterminio tutto il suo popolo.
Dopo aver realizzato le vetrate per la cattedrale di Metz, inserite in una struttura gotica, Chagall ha la piena libertà di esprimersi nelle vetrate per la sinagoga di Hadassah, inserite in una struttura attuale, ma anche qui l’elemento che è sempre rimasto fondamentale per lui, la luce, diviene l’elemento di base assoluto.
L’unità spaziale della sinagoga e la simultaneità del suo impatto visivo richiedevano una concezione unitaria e per questo l’artista sceglie il tema delle dodici tribù d’Israele e due testi biblici fondamentali gli forniscono l’ispirazione: Genesi e Deuteronomio.
Le vetrate si dispongono come una corona luminosa al di sopra dello spazio centrale della sinagoga e il loro orientamento verso i quattro punti cardinali assicura l’illuminazione con la luce naturale, secondo il trascorrere delle ore. La luce penetra a fiotti all’interno della sinagoga e scolpisce lo spazio creando l’illusione del movimento; nell’avvicendarsi delle ore, l’edificio è chiamato a vivere il suo tempo quotidiano che diventa tempo rituale ogni volta che si salmodiano le tre preghiere giornaliere. L’intimo rapporto che lega il valore di un colore e la sua intensità alla superficie e all’intensità di luce che riceve, è mirabilmente padroneggiato da Marc Chagall.
Le iscrizioni che percorrono queste vetrate sono il segno dell’importanza particolare che il pittore ha loro attribuito. Chagall, infatti, aveva elaborato per tutta la vita i sentimenti profondi che gli provenivano dalla sua esistenza di adolescente cresciuto in ambiente ebraico E confessò di aver avuto la sensazione, mentre lavorava alle vetrate, di aver dietro le spalle il padre e la madre che lo guardavano, insieme con milioni di ebrei “svaniti ieri e migliaia di anni fa”.
Ma non si era fermato ai sentimenti: aveva studiato a fondo la Bibbia e gli altri testi della cultura israelita. Infatti, per un’attenta identificazione dei contenuti è necessaria una conoscenza non solo della Bibbia, ma penso anche di elementi talmudici, targumici, rabbinici, e anche chassidici.
Lo stile delle composizioni è quello tipico di Chagall, ma estremamente semplificato: in esse volano, nuotano e vivono pesci, uccelli, serpenti, altri animali, si trovano oggetti della storia e del culto ebraico come le tavole della Legge, la menorah, e poi mani e mazzi di fiori, che sono marchio distintivo delle opere dell’artista. Manca totalmente la figura umana in ottemperanza alla tradizione ebraica che imponeva di astenersi dalla rappresentazione umana.
Il suo stile inconfondibile si ritrova anche nei colori forti entro cui le figure tendono sempre a volare verso l’immensità del cielo.
Chagall si ispira alla Benedizione di Giacobbe (Gen.49,1-27) e a quella di Mosè (Dt.33,1-25), nonché alla descrizione del pettorale sacerdotale (Es.39,8-21), dove già una stupenda fantasia coloristica parla di oro, blu, porpora e scarlatto, pietre preziose tra cui topazio, smeraldo, turchese, zaffiro, ametista, lapislazzuli e diaspro. Ma la realizzazione artistica va oltre ogni possibilità di descrizione.
Egli illustra espressionisticamente le parole del patriarca morente, che descrive con toni altamente poetici le caratteristiche fisico-emblematico-simboliche dei suoi figli. E per ciascuno, l’artista ha scelto una gamma diversa di straordinaria intensità: l’azzurro per Ruben, blu scuro per Simeone, il giallo-oro per Levi, il rosso scuro per Giuda, il rosso chiaro per Zabulon, il verde per Issacar, il blu per Dan, il verde scuro per Gad, il verde oliva per Aser, il giallo per Neftali, l’arancione per Giuseppe, e ancora il blu per Beniamino.
Per fare ciò si avvale di un vocabolario iconografico tratto dalla raffigurazione animalista: vediamo il toro, il cavallo, la capra, il leone, l’asino, il serpente, la cerva e numerosi pesci e uccelli. A questo bestiario si affiancano gli oggetti cerimoniali, specificando la funzione di ogni tribù in seno alla comunità. E le lettere ebraiche, con il nome di ogni tribù stanno iscritte al sommo di ogni vetrata al centro, o la attraversano a guisa di filatterio e così il nome assurge nell’economia della vetrata al rango di elemento plastico.
Parete Est
1. RUBEN: (azzurro) Ruben, il primogenito, è rappresentato dal volo possente degli uccelli. La finestra contiene le foglie di mandragora, in riferimento a Gen.30,14: “Al tempo della mietitura del grano, Ruben uscì e trovò delle mandragore, che portò alla madre Lia.” Lo sfondo blu e il pesce rappresentano il versetto “bollente come acqua” (Gen.49,4). Il cerchio radiante in alto significa il sorgere del sole, che a sua volta richiama lo stato di primogenito “il mio vigore e la primizia della mia virilità” (Gen.49,3). Così il blu trionfa in varie tonalità complementari e l’azzurro chiaro della vetrata di Ruben è come un mare agitato, con un uccello bianco che si libra in volo verso una luna ricoperta di parole ebraiche, incurante di un altro uccello blu, mentre dei pesci guizzano sul fondo.
2.SIMEONE: (blu scuro) La violenza di Simeone è rappresentata dall’immagine del toro e del cavallo in guerra. Simeone e Levi “sono fratelli, strumenti di violenza sono i loro coltelli” (Gen.49,5) e sono caratterizzati dalla loro ira e dall’estremismo. Gli animali raffigurati sulla vetrata non si guardano fra loro e ciò simboleggia disagio e tensione
3. LEVI: (giallo oro) Il colore giallo della finestra di Levi simboleggia l’uso dell’oro nel santuario, dove molti oggetti sacri erano dorati e l’oro era anche la componente principale della veste del Sommo Sacerdote. Gli animali sono probabilmente gli animali sacrificali, come il capro espiatorio del giorno dell’espiazione e le colombe. In mezzo alla vetrata campeggia la stella di Davide (raramente raffigurata da Chagall) con sotto le Tavole della Legge. La stella e le Tavole indicano chiaramente la missione sacerdotale dei Leviti. Le Tavole sono circondate da candele, il comune simbolo ebraico dello studio e della ricerca.
Parete Sud
4.GIUDA: (rosso scuro) Il fondo rosso della finestra si riferisce indubbiamente all’immagine del vino nella benedizione di Giacobbe “lava nel vino la sua veste e nel sangue dell’uva il suo manto” (Gen.49,11), ma può anche essere collegato alla veste regale e la corona nella parte superiore è evidente. Al centro della vetrata è collocato il leone, “un giovane leone è Giuda” (Gen.49,9), che ha tutta l’imperiosa dignità della suaspecie, e dietro il leone c’è la città di Gerusalemme. In alto due grandi mani, che forse illustrano il versetto “la tua mano sarà sulla cervice dei tuoi nemici” (Gen.49,8); le mani hanno quattro dita, proprio perché non ci sia alcun riferimento evidente alla figura umana.
5. ZABULON: (rosso chiaro) Poiché lui era destinato a vivere “lungo il lido del mare e presso l’approdo delle navi” (Gen.49,13) e il simbolo della sua tribù era una nave. La tribù, infatti, è diventata nota per il commercio, la navigazione e la produzione di vetro. Una nave è in primo piano, mentre a lato si nota uno specchio d’acqua e due grandi pesci, in alto, mettono in evidenza il nome scritto a caratteri cubitali.
6. ISSACAR: (verde) La colorazione verde simboleggia la Terra di Galilea, dove si trovava il territorio ereditato di questa tribù. In alto ci sono le mani di Giacobbe che benedicono Issacar: “è un asino robusto, accovacciato tra un doppio recinto” (Gen.49,14) e pertanto è proprio la testa di un asino al centro della vetrata. Una leggenda popolare racconta la disposizione speciale tra Zabulon e Issacar: i fratelli decisero che Issacar si dedicasse allo studio della Torah e che Zabulon avrebbe provveduto a lui. Questo è accennato dal versetto del Dt.33,18: “Gioisci, Zabulon, ogni volta che parti, e tu Issacar, nelle tue tende” ed è leggibile nell’immagine della tenda bianca al centro. In alto ci sono degli uccelli, tra cui una fenice, animale caro a Chagall, poiché allude all’eternità.
Questa finestra è stata gravemente danneggiata dai bombardamenti giordani durante la guerra dei sei giorni del 1967. Il punto bianco sull’immagine dell’asino in fondo in realtà è un foro di proiettile.
Parete ovest
7. DAN: (blu) Un serpente e la bilancia della giustizia rappresentano Dan, il cui padre ha detto che “giudica il suo popolo” e “sia un serpente sulla strada” (Gen.49,16-17). La serpe è simbolo implacabile della giustizia di Dio, nel ricordo delle religioni orientali che lo deificavano. Il blu scuro della vetrata è dominato da un candelabro a tre braccia in mezzo a un bestiario tipicamente chagalliano, tra cui il serpente che minaccia dei cavallini “una vipera cornuta sul sentiero, che morde i garretti del cavallo” (Gen.49,17). Dan è la più piccola delle tribù.
8. GAD: (verde scuro) La tribù si era stabilita nella regione della Transgiordania. La vetrata contiene molte immagini di armi, come scudi e lance, che riflettono il carattere bellicoso di questa tribù: “predoni lo assaliranno, ma anche lui li assalirà alle calcagna” (Gen.49,19).
9. ASER: (verde oliva) Il colore di fondo è verde oliva e qui il prezioso olio è il motivo principale: “Sia il favorito tra i suoi fratelli e tuffi il suo piede nell’olio” (Dt.33,24) Questa tribù è stata stabilita nella terra fertile del Nord d’Israele, in una zona nota per gli ulivi, che spesso forniva di olio tutto Israele. C’è un albero di olivo sul lato destro, e un vaso di olio ca forma di uccello nell’angolo in basso a sinistra. Al centro, in basso, c’è la Menorah, che era alimentata da olio puro, e pertanto appare nella parte inferiore della vetrata una tazza utilizzata per versare l’olio nella Menorah. Nella parte superiore è raffigurata una colomba con un ramoscello d’ulivo nel becco, simbolo della pace, in riferimento a Gen.8,11.
Parete Nord
10. NEFTALI: (giallo) ) E’ stato il primo dei figli di Giacobbe a raggiungere il padre con la notizia che Giuseppe era vivo in Egitto, pertanto è visto come agile e all’erta ed è stato paragonato a una “cerva slanciata” (Gen.49,21). Barak l’eroe, che ha vinto il signore della guerra Sisara, era di questa tribù e così forse Debora, anche se ha vissuto nel territorio di Giuseppe. Il simbolo più importante sulla finestra è naturalmente una grande cerva in primo piano, insieme con l’uccello che significa libertà. La ripida montagna a destra richiama il monte Tabor, dove Sisara fu completamente sconfitto e dove Deborah, successivamente, ha cantato la sua canzone vittoria. Il grande albero a destra può far riferimento all’albero (palma) sotto il quale Debora profetizzava.
11. GIUSEPPE: (arancio) E’chiamato dal padre “germoglio di ceppo fecondo” (Gen.49,22). Lo sfondo giallo-arancio di questa finestra rappresenta il grano maturo, il sole e il raccolto generoso: “il meglio dei prodotti del sole e il meglio di ciò che germoglia ogni luna; la primizia dei monti antichi, il meglio dei colli eterni e il meglio della terra e di ciò che contiene” (Dt.33,14-15). Così sono raffigurate le uve e il cesto col pane, che simboleggiano l’abbondanza nel paese di Manasse e di Efraim, i figli di Giuseppe, ma allo stesso tempo ricordano i sogni dell’ufficiale egiziano che si rivolse a Giuseppe per l’interpretazione. Qui vediamo anche degli animali che pascolano in pace, forse le mucche del sogno del Faraone. L’arco e la freccia al centro della vetrata si riferiscono al versetto “lo hanno perseguitato i tiratori di frecce” (Gen.49,23). La parete fortificata della città è il muro di Sichem, dove Giacobbe ha acquistato un pezzo di terra quando è tornato in Israele (Gen.33,18-20).Nella parte superore della vetrata due mani suonano lo shofar, strumento in corno di montone, utilizzato in diverse feste religiose, come Rosh haShana e Yom Kippur.
12. BENIAMINO: (blu) E’ un “lupo che sbrana” (Gen.49,27). E’ il più giovane figlio di Giacobbe e Rachele: “prediletto del Signore, Beniamino, abita tranquillo presso di Lui; egli lo protegge sempre e tra le sue spalle dimora” (Dt.33,12). Il grande cerchio al centro simboleggia l’unità: Saul, il primo re di tutto Israele, è della tribù di Beniamino e unì le tribù separate (i cerchi più piccoli) in un solo regno. Anche Mardocheo e la regina Ester sono beniaminiti. Il grande occhio per Chagall simboleggia la forza vitale, animale, e in basso c’è, ovviamente, il lupo che divora la sua preda.
In questa opera di Marc Chagall si trova un felice ed eccezionale connubio fra tre elementi: la cultura ebraica, il sentimento popolare russo e le tecniche mai schematicamente adoperate dell’avanguardia artistica dei primi del Novecento.
In particolar modo nelle sue vetrate si ritrovano tracce di un mondo russo, che si è portato dietro per tutta la vita, con sembianze di animali e mostri che possono ricordare immagini di peccato e di sventura, mentre tutto l’amore e la nostalgia per la sua terra e le sue origini lo possiamo comprendere proprio dalle parole pronunciate in yiddish dall’artista il 6 febbraio 1962 all’inaugurazione delle sue vetrate nella Sinagoga del Medical Center Hadassah di Gerusalemme.
“Io so che il cammino della vita è eterno e insieme breve. L’ho imparato quando ero ancora nel ventre di mia madre, che questo cammino si percorre meglio con l’amore che con l’odio.
Già questi pensieri mi erano venuti, molti anni addietro, quando calcai questo suolo, preparandomi a creare queste incisioni per la Bibbia. ed esse mi diedero il coraggio di preparare il mio modesto regalo al popolo ebraico. Per questo popolo, che da sempre ha sognato l’amore biblico, l’amicizia e la pace con tutti i popoli.[…]
E questa, che oggi chiamiamo “Arte Sacra”, l’ho creata pensando alle grandi creazioni dei popoli semitici vicini. Voglio così sperare di tendere una mano agli amici della cultura, ai poeti e agli artigiani dei popoli che ci circondano.
Ho concluso il cammino di due anni di lavoro per creare le dodici vetrate della Sinagoga di Gerusalemme. Voglio sperare che l’amerete e che essa traboccherà d’armonia così come l’ho sognata.
Ho visto le montagne di Sodoma e del Negev, dalle loro crepe nascevano le ombre dei nostri profeti […] Ho udito le loro antiche parole; non hanno forse detto come agire giustamente e esattamente su questa terra e quale ideale far proprio?
Che questa modesta opera rimanga sulla loro terra, sulla vostra terra; ciò mi è di consolazione e di speranza.”
Marc Chagall
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Le dodici tribù di Israele e la benedizione di Giacobbe – Giulio Michelini
Estratto da: G. Michelini, «Il fratello che deve sempre essere cercato», in G. Michelini – G. Gillini – M. Zattoni, Fraternità ferite dalla Genesi ai Vangeli, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2016, 9-55 (qui 38-42).
La benedizione di Giacobbe ai suoi figli (Gen 49,1-33) è probabilmente il testo più difficile di tutto il libro della Genesi (N.M. Sarna), anche perché si tratta di una collezione di antichi canti tribali e di memorie collegate a ciascuna tribù, poi incorporate in un poema a chiusura del ciclo di Giacobbe. Come farà Mosè nel lungo discorso d’addio alle tribù che è il libro del Deuteronomio, e anche Gesù quando si rivolgerà col suo “testamento” ai Dodici (cfr. Gv 13,1–17,26), ora l’anziano Giacobbe/Israele viene ritratto mentre chiama attorno a sé i suoi dodici figli, dal primogenito, Ruben al più piccolo, Beniamino. Anche se noi sottolineeremo un solo aspetto di questa complicata pagina, dobbiamo notare che la benedizione del padre, pur avendo il carattere di una profezia («Radunatevi, perché io vi annunci quello che vi accadrà nei tempi futuri»; Gen 49,1), è una profezia ex eventu, cioè scritta quando già ha avuto luogo uno dei punti centrali del testamento di Giacobbe, ovvero la primazia di Giuda sulle altre tribù. Nella “benedizione” ciò avviene attraverso l’esclusione di alcuni dei fratelli, che vengono biasimati a ragione di azioni riprovevoli che hanno compiuto, a partire proprio dal primogenito (che è giaciuto con la concubina del padre Giacobbe, Bila; cfr. Gen 35,22): «così ancora una volta, dopo Caino, il primogenito di Adamo, Ismaele, il primogenito di Abramo, Esaù, il primogenito di Isacco, e Manasse, il primogenito di Giuseppe, anche Ruben, il primogenito di Giacobbe e Lea viene squalificato. Di conseguenza, la supremazia e il dominio sul resto dei fratelli vengono inevitabilmente assegnati a Giuda, il quartogenito». Ma questa è chiaramente teologia, o meglio, una «mirata ideologia atta a magnificare e a celebrare particolarmente il regno del Sud – Giuda, per l’appunto –, a scapito delle altre tribù di Israele» (F. Giuntoli). Anche se condizionata da una interpretazione politica o ideologica, in questa pagina non sono assenti insegnamenti. Anzitutto, si tratta di una benedizione per Giacobbe, che può dirsi benedetto nel morire mentre sono attorno a lui tutti i suoi figli, anche quello – Beniamino – che pensava fosse morto. Giacobbe, poi, che avrebbe potuto rimproverare ai propri figli i loro errori, e quindi non benedirli, oppure avrebbe potuto, al contrario, dare loro la benedizione “chiudendo gli occhi” davanti ai loro peccati, sceglie una terza via. La benedizione di Giacobbe parte da un dato di realtà – non nasconde quanto i figli hanno fatto o i loro aspetti problematici – ma li benedice comunque, permettendo loro di andare nella vita con lo sguardo buono del padre.
La caratteristica che sottolineiamo di questa pagina è però quella della differenza tra i fratelli. Tutti i fratelli sono descritti con attributi diversi, a vari livelli, e le tribù sono così differenti come lo possono essere i figli di una stessa coppia. Si va da Beniamino, amante della guerra, perché paragonato a un lupo che sbrana, a Issacar, che invece è come un asino e dunque ama la sicurezza ed è pacifico, «accovacciato tra un doppio recinto» (Gen 49,14); da Ruben, dal carattere indisciplinato («bollente come l’acqua»; 49,3), a Giuseppe, che è il contrario (descritto come un «germoglio di ceppo fecondo presso una fonte, i cui rami si stendono sul muro»; 49,22); dalla natura irosa di Simeone e Levi (descritti con in mano i coltelli che sono i loro «strumenti di violenza»; 49,5) a quella calma di Giuda (un “leone”, ma accovacciato; 49,9).
Il testamento di Giacobbe serve da ponte tra il passato – la storia dei patriarchi e dei loro figli – e il futuro di questi figli, ovvero la permanenza di questi in Egitto, e l’esodo che ne conseguirà, e, poi, finalmente, la loro installazione nella Terra di Israele, col predominio di Giuda sulle altre tribù. Dio, che aveva promesso ad Abramo una discendenza e una Terra (Gen 12,1-3), è stato fedele. I suoi figli, i suoi nipoti, i nipoti dei nipoti – le dodici tribù – abiteranno una Terra che è amata attraverso i volti di quegli uomini e di quelle donne che vi risiedono. La benedizione del patriarca, infatti, ha anche una qualche caratterizzazione geografica, diretta, come nel caso di Zabulon che «giace lungo il lido del mare», ovvero vicino al Mediterraneo, «con il fianco rivolto a Sidone» (49,13) o di Issacar, la cui terra è “amena” (49,15); oppure indiretta, attraverso gli animali che simboleggiano le tribù, e che sono appunto quelli presenti in Israele: il leone (Giuda), l’asino (Issacar), il serpente (Dan), la cerva (Neftali), il lupo (Beniamino). Caratteri, animali differenti, come i luoghi e le regioni della Terra d’Israele che questi figli occuperanno, con le loro tribù, entrando in essa dopo l’esodo: dai monti del Nord, alla Galilea, al deserto di Giuda o del Negev, al mare Mediterraneo, fino al mar Morto.
La benedizione di Israele ci ricorda anche la lista dei dodici apostoli che troviamo nei vangeli. Gesù, infatti, ha certamente voluto riprodurre la tradizione di ricchezza delle dodici tribù del suo popolo quando ha scelto proprio quel numero di discepoli. Se ci fermiamo solo al vangelo di Matteo (10,2-5), vediamo tra l’altro che dopo Pietro, nominato per primo, tra i Dodici è rappresentato tutto Israele: dagli zelanti per la Torà come Simone («il Cananeo» zelante) agli ex esattori delle tasse (assimilati ai peccatori e ai pagani) come Matteo; da Galilei (la maggioranza), a un apostolo proveniente da una città (probabilmente) della Giudea, Giuda (l’«uomo di Qeriyyot»). Insomma, si tratta di un insieme non omogeneo, dove tutti avranno dovuto compiere un cammino per accettarsi reciprocamente: in particolare, forse, Matteo e Simone. Per Gesù questi Dodici dovevano rispecchiare il popolo di Israele che stava per essere ricostituito dalla dispersione, composto da tribù così diverse tra loro – come lo erano i patriarchi eponimi, figli di Giacobbe – ma comunque chiamate ad accogliere insieme la venuta della regalità di Dio. È la conferma che la comunità fondata dal Messia, la «Chiesa» (16,18; 18,17) non era pensata come un “altro” Israele, ma come quello “stesso” Israele di Dio.
Quando parliamo di differenze tra i figli di Israele, come anche di differenze tra i Dodici, ci torna alla mente quanto papa Francesco ha scritto nella sua enciclica Laudato sì’ a proposito della biodiversità. Questo concetto, che descrive in biologia la differenza, la multiformità, l’abbondanza di varietà, la molteplicità di specie vegetali e animali presenti in un dato ecosistema, potrebbe essere applicato anche agli esseri umani, non a riguardo delle specie o razze, ma a proposito delle differenze, perché proprio nella “differenza” sembra esservi un valore. La perdita di biodiversità è un problema per il futuro delle risorse sul nostro pianeta, ma – scrive papa Francesco – «Non basta pensare alle diverse specie solo come eventuali “risorse” sfruttabili, dimenticando che hanno un valore in sé stesse» (Laudato si’, 33). Questo valore delle specie in sé stesse viene, ultimamente, dal fatto che secondo il pensiero ebraico cristiano è Dio ad aver voluto questa differenza, che porta perciò a valorizzare ogni essere vivente: «Siamo chiamati a riconoscere che gli altri esseri viventi hanno un valore proprio di fronte a Dio e “con la loro semplice esistenza lo benedicono e gli rendono gloria” perché il Signore gioisce nelle sue opere (cfr. Sal 104,31). […] La Chiesa non dice in maniera semplicistica che le altre creature sono completamente subordinate al bene dell’essere umano, come se non avessero un valore in sé stesse e noi potessimo disporne a piacimento» (Laudato si’, 69).