• 19 Aprile 2024 13:47

La parte buona

CHE ASCOLTA E METTE IN PRATICA LA PAROLA DI DIO

Le meditazioni degli ESERCIZI SPIRITUALI predicati a Papa Francesco e alla Curia Romana – Giulio Michelini, “Stare con Gesù, stare con Pietro”, Porziuncola 2017 – Estratto di un capitolo

A conclusione del corso di Esercizi Spirituali predicati a Papa Francesco e alla Curia Romana da parte di p. Giulio Michelini ofm, è disponibile presso le Edizioni Porziuncola, Libreria Internazionale Francescana e in tutte le librerie, il testo con le meditazioni integrali.

 

Un estratto dalla

SECONDA MEDITAZIONE – “Le ultime parole di Gesù e l’inizio della passione” (Mt 26,1-19)

(G. Michelini, Stare con Gesù, stare con Pietro, Porziuncola 2017, pp. 37-51)

 

Ci siamo lasciati chiedendoci dove e come inizi il racconto della passione secondo Matteo che guida i nostri esercizi spirituali. Per rispondere alla domanda, dovremo vedere da vicino la formula che si trova al capitolo 26 del vangelo, e soffermarci sui personaggi che intervengono sulla scena, ovvero, oltre ai discepoli (che sono sempre presenti, con Gesù), anche i capi dei sacerdoti e gli anziani, una donna anonima, e Giuda. Ma sullo sfondo, ed evocati dalle parole di Gesù, non mancheranno di comparire i poveri. Come per tutte le meditazioni, terremo presente il ministero di Gesù in Galilea, ricordando proprio alcune cose accadute a Cafarnao.

 

Portare a compimento un’opera

In Mt 26,1 leggiamo: «E avvenne che, quando Gesù terminò tutti questi discorsi, disse ai suoi discepoli…». Si tratta di una formula tipicamente matteana, posta al termine di ognuno dei cinque discorsi di Gesù nel Primo vangelo: qui, però, Matteo scrive «tutti questi discorsi», anziché «questi discorsi» (o «queste parabole», come in Mt 13,53). Una formula di transizione per collegare il racconto della passione ai precedenti discorsi, alla stregua delle altre quattro occorrenze, ma proprio per il fatto che è l’ultima volta che appare in Matteo, si riferisce ora a tutte le parole dette da Gesù fin qui, e dunque assume un particolare significato. Vediamola da vicino.

Secondo Matteo, Gesù ha portato a compimento un’opera: ha pronunciato, cioè, tutte le parole che poteva e doveva pronunciare. Il verbo teleō è, tra l’altro, lo stesso usato nel vangelo di Giovanni, quando si racconta di Gesù che, sulla croce, sapendo che tutto era «compiuto» (tetélestai, da teleō), disse di aver sete (Gv 19,28), e dopo aver preso l’aceto, infine, disse ancora «è compiuto» (tetélestai), e consegnò lo spirito (Gv 19,30). Gesù ama i suoi fino alla fine, eis télos, cioè fino alle conseguenze estreme. Che grazia poter concludere un compito!, e per questa grazia ci esorta a pregare la tradizione cristiana affidando a Dio il nostro tempo perché «ogni nostra attività abbia da Lui il suo inizio e in Lui il suo compimento». Diamo gloria a Dio per le cose che siamo riusciti a portare a termine con il suo aiuto; accogliamo il fatto che alcuni compiti che abbiamo ricevuto o lavori che abbiamo intrapreso siano rimasti incompiuti, per cause non dipese da noi; domandiamo perdono se non siamo stati costanti e non siamo riusciti a completare quanto dovevamo. Sappiamo infatti che portare a compimento un’opera è una grazia davvero speciale, e, guardando bene, come Rabbi Tarfon insegnava, in un detto riportato poi nel più noto trattato della Mishnà, l’Etica dei padri, non spetta nemmeno agli uomini concludere da soli un compito gravoso: «Non ti è richiesto di completare l’opera, ma non sei libero di sottrartene» (Avot 2,21)[1].

Dio aveva concluso il proprio lavoro in sei giorni, e il settimo si era riposato contemplando la creazione e, secondo le parole di Ambrogio di Milano, disponendosi proprio a perdonare Adamo. Ricordiamo la celeberrima interpretazione: «Ringrazio il Signore Dio nostro che ha creato un’opera così meravigliosa nella quale trovare il suo riposo. Creò il cielo, e non leggo che si sia riposato; creò la terra, e non leggo che si sia riposato; creò il sole, la luna, le stelle, e non leggo che nemmeno allora si sia riposato; ma leggo che ha creato l’uomo e che a questo punto si è riposato, avendo un essere cui perdonare i peccati» (Esamerone, IX, 76)». Trovo in questa bella pagina una possibile analogia con la storia di Gesù, perché nel racconto della passione secondo Matteo (e solo in questo), come vedremo più avanti, emergerà chiarissimamente anche il tema del perdono dei peccati. E infatti la citazione di Ambrogio sul settimo giorno continua proprio in questo modo: «O forse già allora si preannunciò il mistero della futura passione del Signore, col quale si rivelò che Cristo avrebbe riposato nell’uomo, egli che predestinava a se stesso il riposo in un corpo umano per la redenzione dell’uomo […]»[2].

 

Gesù ha terminato di pronunciare discorsi

All’inizio della passione la formula «terminare tutti i discorsi» ha però anche un altro significato, che emerge da una complicazione: mentre Matteo afferma che Gesù ha appena finito di parlare, in realtà, in modo apparentemente contraddittorio, egli invece riprende il discorso. Ciò insinua nel lettore una domanda: se Gesù ha terminato tutti i suoi discorsi (Mt 26,1a), perché subito dopo dice ai suoi discepoli (Mt 26,1b) ancora qualcosa? Sembra proprio che ad essere caratteristico del racconto della passione non sia tanto l’insegnamento verbale di Gesù, quanto il fatto che egli stia in silenzio davanti agli oppositori: Gesù, insomma, parlerebbe d’ora in poi più con il silenzio che con le parole; più con i fatti che con le parole. Il Maestro però non ha terminato di insegnare: le poche parole che dirà durante la passione dovranno essere ascoltate con grande attenzione, perché essenziali per la comprensione di quanto sta accadendo e viene narrato. Soprattutto, Gesù ha finito di pronunciare discorsi e ora non può far altro che affidarsi ad un’altra modalità di comunicazione. Potremmo anche dire che le parole in alcuni momenti non servono affatto, come quando ci si trova dentro i conflitti, o quando gli interlocutori sono dei potenziali antagonisti, o quando il potere non permette di pronunciarne (come vedremo nel caso della moglie di Pilato, che riuscirà a parlare solo in un modo speciale). Ci torna alla mente, a questo riguardo, Francesco d’Assisi, che nell’ultimo capitolo della Regola prescrive che i frati stiano tra gli infedeli in due modi: annunciando il vangelo con parole (quando possono farlo), o con la loro semplice presenza pacificante («non facciano liti né dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani»; Regola non bollata XVI,5; FF 43).

Anzi, a volte le parole possono addirittura danneggiare, e non servire più a nulla. Ci torna alla mente un episodio riguardante il Baal-Schem Tow: «Una volta il Baalschem si fermò sulla soglia di una sinagoga e rifiutò di mettervi piede. “Non posso entrarvi”, disse, “da una parete all’altra e dal pavimento al soffitto è così stipata di insegnamenti e di preghiere che dove ci sarebbe ancora posto per me?”. E notando come coloro che lo circondavano lo guardassero stupefatti, aggiunse: “Le parole che escono dalle labbra dei maestri e di coloro che pregano, ma non da un cuore rivolto al cielo, non salgono in alto, ma riempiono la casa da una parete all’altra e dal pavimento al soffitto”»[3].

 

Il silenzio di Gesù e i nostri silenzi

Quando Gesù sta di fronte a chi lo ritiene un bestemmiatore, a chi non lo sopporta e lo vuole distruggere, lui tace. Questo silenzio cresce progressivamente, e si ridurrà fino a far registrare – se mettiamo insieme tutte e quattro le tradizioni evangeliche – le sette parole di Gesù sulla croce. Questo silenzio si spezza, ad un certo punto, con il colpo di lancia e un grido. L’uomo Gesù, che aveva smesso di parlare all’inizio della sua passione, termina la sua esistenza umana e terrena gridando di dolore.

Il significato di un silenzio però non è mai scontato, e può implicare molte cose. Si pensi al silenzio pesante nelle relazioni, a quello rancoroso di chi “tiene il muso”, oppure al silenzio di chi non si esprime per meditare vendette, o, ancora, di chi ha riserve mentali e non ha il coraggio di verbalizzarle. O si pensi anche al silenzio di cui parlò il premio Nobel Elie Wiesel al Parlamento italiano, in occasione della giornata della memoria nel 2010, in un discorso che provocò anche delle reazioni per le implicazioni che portava: «Oggi dovremmo dedicare la giornata non solo al ricordo, ma anche alla riflessione e alla presa di coscienza. In che modo la storia giudicherà il comportamento del mondo? In che modo la storia giudicherà il comportamento dell’Italia? […] Quanti hanno corso il rischio? Quanti hanno aperto la propria casa ad un bambino ebreo, ad una famiglia ebrea, ad un ebreo che aveva di fronte la prigione e la deportazione? A qualsiasi livello della politica e al più alto livello della spiritualità, il silenzio non aiuta mai la vittima: il silenzio aiuta sempre l’aggressore»[4].

Dunque, tra i tanti tipi possibili di silenzio, di quale ci sta parlando il vangelo di Matteo, ora che Gesù ha detto tutto quanto doveva dire? Ci sembra si tratti un silenzio con almeno tre caratteristiche: è disarmante, ma è disarmato, ed è sereno. Disarmante, come quello che appare più chiaramente nel racconto di Luca, quando Gesù si troverà di fronte ad Erode Antipa che vuole vedere i giochi di prestigio che farebbe un mago o un giocoliere, e quindi Gesù «non rispose nulla» (Lc 23,9). Ma è anche un silenzio disarmato, perché questa sola è la condizione per poter poi perdonare: il Signore non aggredisce verbalmente coloro che lo attaccano; si difenderà con la verità, ma non sarà comunque capito. Infine, quello di Gesù è il silenzio sereno di chi sa che ha fatto quello che poteva fare ed è ora nelle mani del Padre.

Oltre al silenzio di Gesù, c’è però, lo vedremo presto, il silenzio più bruciante, quello di Dio: Gesù si affida in silenzio al silenzio del Padre. In quel silenzio Marco e Matteo daranno spazio solo al grido di Gesù, perché di fronte al silenzio di Dio siamo capaci soltanto di gridare sillabe inarticolate.

Dopo aver detto che Gesù ha concluso tutti i suoi discorsi, Matteo introduce ora gli altri protagonisti di questa prima parte della passione: Caifa, coi capi dei sacerdoti e altri anziani, una donna anonima, e Giuda.

 

Preparare la Pasqua tramando la morte di qualcuno

Del consiglio degli anziani che si raduna contro Gesù mettiamo ora in rilievo un elemento che non deve sfuggirci, ovvero la sincronia degli eventi come narrata da Matteo. Mentre Gesù si prepara da ebreo osservante a celebrare Pesah – rispettando le prescrizioni che riguardavano il mangiare l’agnello in una casa all’interno della città di Gerusalemme – ecco che altri si preoccupano della stessa festa, ma da un punto di vista completamente diverso. Caifa e gli altri con lui, infatti, decidono proprio di catturarlo ma «non durante la festa» (Mt 26,5).

Naturalmente qui Matteo non vuole stigmatizzare gli ebrei nel loro insieme, in quanto popolo di Dio – anzi, proprio lui scrive per gli ebrei e parla di un Gesù ebreo – e nemmeno noi vogliamo far questo. Si sta parlando piuttosto di una gerarchia religiosa, che può essere presente in ogni forma di istituzione umana, e che può arrivare fino al punto di perdere di vista la prospettiva giusta, dimenticando l’uomo – e credendo di servire Dio o “la festa”. Stiamo qui parlando di un modo, meglio, di un sistema, qui, che pretende di essere religioso, che è distorto e non vuole ammetterlo, perché crede di rispettare la giustizia di Dio o la verità.

Emerge così in modo evidente il confronto ironico tra due logiche e due modalità: da una parte c’è un laico (meglio sarebbe dire “secolare”), certo, ebreo osservante, Gesù, ma laico («Gesù nacque come ebreo laico, condusse il suo ministero come ebreo laico e morì come ebreo laico»[5]), che si sta preparando a celebrare la festa della liberazione di Israele; dall’altra parte, i sommi sacerdoti che con la complicità di uno dei Dodici si preparano a catturare e uccidere un innocente. Anche questi si preoccupano della festa, ma sul piano del suo buon svolgimento esteriore, «perché non avvenga una rivolta fra il popolo» (Mt 26,5). Oltretutto, la liturgia (“l’azione del popolo” di Israele: laós) è posta in secondo luogo rispetto alla paura del popolo, che evidentemente – si sapeva – avrebbe difeso Gesù, e avrebbe potuto rivoltarsi contro i Romani. Pur di conservare lo statu quo, si sacrifica la vita di un giusto.

 

L’unzione di Betania

Subito dopo questa scena, ecco apparire finalmente la prima figura femminile della passione. La scena dell’unzione di Gesù da parte di una donna è senza dubbio una delle più suggestive dei vangeli, ma anche una delle più difficili da interpretare. Trasmessa da tutte e quattro le tradizioni canoniche, presenta però notevoli differenze, difficilmente conciliabili. Nei vangeli di Marco e Matteo l’unzione ha luogo in prossimità della passione del Signore, e, anzi sembra proprio anticiparla (cf. Mt 26,6-13); lo stesso per il vangelo secondo Giovanni (Gv 12,1-8). Nel vangelo di Luca, invece, la scena è staccata dal contesto della passione, e si trova molto indietro nel racconto (Lc 7,36-50), quando ancora non è stato annunciato il viaggio verso Gerusalemme. In Luca, poi, la donna che compie il gesto è una peccatrice, negli altri vangeli sinottici è una donna anonima, mentre nel vangelo secondo Giovanni è Maria, sorella di Lazzaro e Marta. L’olio profumato, infine, nella versione lucana e giovannea viene versato dalla donna sui piedi di Gesù, mentre in Matteo e Marco sul capo. Anche il significato del gesto, dunque, può variare a seconda delle versioni. L’unzione del “capo” richiama proprio l’investitura regale, e dunque Gesù verrebbe unto re e Messia (cf. 1Sam 16,12-13) in modo umile, dalle mani di una donna, tra la reazione negativa dei discepoli, che si ribellano. Ma l’unzione è dei piedi (nelle versioni di Luca e di Giovanni), o anche sul “corpo” (cf. Mt 26,12 e Mc 14,8), e quindi, come dice Gesù stesso, per la sepoltura. Per tutte e quattro le versioni c’è però qualcosa di invariabilmente comune: Gesù difende la donna e rimprovera i discepoli.

Ci potremmo domandare, nel prendere sul serio le differenze che abbiamo velocemente presentato, quale mutamento abbia avuto luogo nella memoria riguardante la tradizione del gesto compiuto da quella donna (una peccatrice, una donna anonima, o Maria di Betania?) nei riguardi di Gesù, e giungere alla conclusione che probabilmente il senso originario di quel gesto è oramai impossibile da ricostruire[6]. Diverse altre implicazioni complicano ulteriormente l’interpretazione del testo, come ad esempio lo sfondo del Cantico dei Cantici, riconosciuto da molti come possibile scena nella quale almeno Giovanni inquadra la sua versione. E forse questo elemento merita una breve riflessione, perché sembra possibile che il quarto evangelista abbia ripreso l’idea dell’unzione di Gesù dagli altri vangeli, ma poi abbia fatto di tutto per inserirvi alcuni dettagli: quelli che sottolineavano l’affetto verso di lui da parte di una donna rappresentata come sua vera discepola, Maria di Betania, qui ritratta come la Sulammita del Cantico di fronte al suo amato Re. Rispetto alle altre tre versioni, come già abbiamo notato, la donna che unge Gesù, Maria, la sorella di Marta e Lazzaro, «non è una donna anonima, o una peccatrice, o fuori da questa cerchia. Appartiene a quella famiglia che i lettori hanno imparato a riconoscere come quella degli amici intimi di Gesù (Gv 11,1-44)»[7]. E poi, Giovanni inserisce a questo punto del suo vangelo il racconto dell’unzione, nei capitoli 11–12, proprio poco prima dell’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme: «il re unto durante il pasto di Betania entra a Gerusalemme come re, muore come un re sulla croce, ed è sepolto come un re»[8].

Ma noi ci fermiamo piuttosto sul fatto che Gesù difenda una donna. Di per sé un dato già significativo, e che richiama il caso della peccatrice difesa da Gesù, l’adultera del capitolo ottavo del vangelo secondo Giovanni. Ma non c’è solo questo aspetto, che sarebbe già sufficiente per costruire una teologia. Questa donna è infatti l’unica, del gruppo dei presenti, e anche dei discepoli, che sembra intuire o capire quanto sta per accadere a Gesù. Non lo esprime però in modo semplicemente concettuale, quanto piuttosto con un gesto, fortemente simbolico, e proprio per questo molto più significativo e meno astratto di quanto possano esserlo a volte le parole. E proprio per questo sorge la difficoltà di interpretare quel simbolo che è stato trasmesso già in origine in modi diversi.

Il gesto, nella versione matteana, si presta ad essere interpretato almeno in due modi. Anzitutto, è sul «capo» di Gesù (Mt 26,7; diversamente da quella descritta in Lc 7,38 e in Gv 12,3, che è dei suoi «piedi»), e dunque sembra proprio essere un’unzione regale. Se prima aveva parlato Pietro, un discepolo, per riconoscere e confessare Gesù come Messia d’Israele, ora è una donna a farlo, che però non può parlare. Una donna in quel contesto si può esprimere solo come i bambini, i matti, i sogni, le “figlie della voce”, ovvero con una comunicazione “debole”, e che per questo richiede la difesa da parte di Gesù. Questa donna anonima parla ora, coi gesti, allo stesso modo in cui, sentiremo tra poco, parlerà un’altra donna, la moglie di Pilato, che farà quello che potrà davanti alla “partita del potere” in cui lei, donna, non potrà giocare praticamente nessuna carta. Gesù però accoglie il gesto umile di chi gli sta davanti, e solo lui, tra tutti i presenti, ne comprende il senso e le ulteriori implicazioni.

Infatti, una seconda interpretazione si impone, interpretazione che viene da Gesù stesso, che vede in quel gesto un’unzione funebre, perché – dice Gesù – essa non è solo sul capo, ma per il suo corpo: «Lei ha versato questo unguento sul mio corpo per la sepoltura» (Mt 26,12). Non solo Gesù capisce il significato del gesto della donna, ma ve ne scopre anche un altro. Non capiscono i discepoli, e Matteo che di solito, rispetto a Marco, attenua i commenti critici di Gesù nei confronti di essi, qui invece li rimprovera apertamente, e loda invece il gesto di quella donna.

Le parole di Gesù, «In verità io vi dico: dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che ella ha fatto» (Mt 26,13), sono uniche, e, come è stato notato, impongono a tutti un serio esame di coscienza: «Stupisce l’estrema parsimonia di Gesù nel consegnare ai discepoli e a noi il contenuto della comunicazione della fede. Questo ci stupisce e ci imbarazza anche perché i processi di comunicazione della fede prevedono la trasmissione di un cumulo sproporzionato di nozioni e di formule, dogmi e precetti: senza nemmeno, spesso, che ci si curi di illustrarne il legame con il cuore della fede ecclesiale che è la Pasqua di Gesù e la nostra Pasqua. Dobbiamo domandarci se noi, predicando il vangelo, ogni volta ricordiamo e raccontiamo quello che la donna di Betania ha fatto»[9].

 

Entrano i poveri nel banchetto

A questo punto del banchetto, attraverso le parole di Gesù, entrano i poveri. Gesù stupisce sempre i suoi con risposte mai scontate, e inaspettate, molte volte paradossali, che dà per risolvere questioni e sciogliere nodi delicati. Difendendo quella donna, respinge le loro argomentazioni riguardanti la possibilità di vendere quel profumo a caro prezzo per darne il ricavato ai poveri, e dice: «Sempre, infatti, avete i poveri con voi, ma non sempre avete me» (Mt 26,11).

Proviamo a spiegare questa frase da almeno due punti di vista.

La prima la prendo da un intelligente, appassionato, e spesso fuori dal coro commentatore della Bibbia, Sergio Quinzio. Questi scrive che «ormai è il tempo di morire. Non il tempo di soccorrere i poveri, come pensano i discepoli che sia (Mt 26,8-9). […] Gesù dice che ormai l’opera buona da compiere è patire con chi muore. Il Messia è venuto per liberare i poveri dalla loro miseria (Lc 1,51-54), ed ecco che se ne va e i poveri non sono liberati, ecco che non li libera nemmeno con la sua morte (Is 53; Gv 1,29): “i poveri li avrete sempre con voi” (Mt 26,11). Fino al giorno [in cui l’opera grande di Dio non li arricchirà per sempre], fino a quando ci saranno affamati e assetati, estranei e nudi, malati e prigionieri, dar veramente da mangiare e da bere (Gv 6,53-55), veramente accoglierli, vestirli e visitarli (Mt 25,35-36; 42-43; Is 58,6-7) è soffrire le loro sofferenze fino a morirne, come fa il Signore, loro potente re e impotente fratello (Mt 25,40)»[10]. Per Quinzio, ora si deve servire il morente, Gesù, più che i poveri, per i quali ci sarà sempre tempo.

La seconda prospettiva con cui spieghiamo la frase di Gesù è appunto quella che riguarda la Chiesa dopo la morte e la risurrezione del Figlio di Dio, e il rapporto con quei poveri che saranno il nostro tesoro anche durante la sua assenza. Mi sembra di intuire la portata di queste parole quando, a volte, in alcune assemblee con le quali celebro – nella chiesa del mio convento, in provincia, nei piccoli centri, nelle parrocchie di periferia, mentre distribuisco la comunione – mi ritrovo a guardare di sfuggita le mani o il fisico, o il portamento, o i vestiti di coloro che accolgono il corpo di Cristo. È una distrazione, ma nemmeno tanto, perché mi permette di osservare chi oggi riceve quella comunione: molti di questi, davvero tanti, poveri. E molti di più sono quei poveri che non possono nemmeno prendere parte alle nostre liturgie, magari perché anziani e ammalati, o che non vogliono parteciparvi e comunque bussano alle nostre porte chiedendo aiuto, o conforto, o semplicemente di essere ascoltati. Molti poi sono quelli che non hanno il coraggio di bussare alle nostre porte, e verso i quali dovremmo andare noi. Se poi siamo sinceri e ci guardiamo dentro, non possiamo non mettere anche noi tra quei poveri: ognuno è, in fondo, un povero per l’altro. Le parole di Gesù dicono che la sua missione non termina con la sua esistenza storica, e infatti procede con l’impegno della comunità credente verso tutti i poveri, noi compresi.

Qualche accenno alla presenza dei poveri per la Chiesa lo si vedeva già dalle prime battute del vangelo di Marco, nel racconto della giornata di Gesù a Cafarnao. Nel sommario di Mc 1,32-34 vi è un dettaglio che potrebbe segnalare una tensione, data dall’opposizione tra i “tutti” che accorrono a Gesù per essere sanati (vv. 32.33.37) e i “molti” che invece, effettivamente, verranno guariti, secondo quanto si legge al v. 34: «Guarì molti che erano afflitti da varie malattie…». Questa tensione – che non si trova però nelle due altre versioni di Matteo e di Luca (dove Gesù guarisce tutti quelli che vanno da lui; cf. Mt 8,16; Lc 4,40) – sarebbe presente nel testo, ed è stata notata: «Ci sono molti malati e indemoniati, ma non tutti vengono guariti: Gesù non guarisce meccanicamente, ne cura molti ma, a differenza del racconto di Matteo e Luca, non guarisce tutti»[11]; «l’ammalato lascia a Gesù il modo in cui egli voglia intervenire sulla sua malattia»[12]. In ogni caso, Gesù si prende certamente cura di tutti quelli che può, ma se non tutti sono guariti, rimarranno i “poveri” di cui ora altri si dovranno occupare, e quelli che un giorno, comunque, verranno sanati da Dio. A Cafarnao Gesù è stato capace di guarire e sollevare la suocera di Simone, e così sarà capace di dare la vita anche a coloro che non sono stati guariti da lui, o che non verranno sanati dalla Chiesa.

 

Gesù, lo spreco, e l’offerta della vita consacrata

Un’ultima suggestione a riguardo della pagina dell’unzione la ricevo da una clarissa, che mi ha ricordato l’utilizzo di questo brano da parte della Chiesa per interpretare la vita di santa Chiara d’Assisi. La santa fuggì di casa la notte tra la Domenica delle Palme e il Lunedì Santo, quando si leggeva cioè il racconto dell’unzione. Due documenti legano la vita di Chiara a questo episodio. Il primo è la Leggenda, che dice così: «In questo augusto reclusorio per quarantadue anni ruppe l’alabastro del suo corpo con i flagelli della disciplina, perché la casa della Chiesa si riempisse della fragranza degli unguenti» (Leggenda di santa Chiara 10; FF 3176). Nel secondo, la Bolla di canonizzazione, leggiamo: «… né poteva rimanere nascosto un vaso con tanti aromi, senza emanare fragranza e cospargere di soave profumo la casa del Signore. Ché, anzi, spezzando duramente nell’angusta solitudine della sua cella l’alabastro del suo corpo, riempiva degli aromi della sua santità l’intero edificio della Chiesa» (5; FF 3285).

Potremmo dire che se la Scrittura illumina e interpreta la vita dei credenti, è pure vero che la vita dei santi è un’esegesi – quanto mai vera e vitale! – della Parola. Questo episodio, in particolare, è una chiave interpretativa per le claustrali, in quel gesto di uno “spreco” che imita il primo e assoluto “spreco”, quello del Signore Gesù, che tutto si è offerto a noi senza ritenere un tesoro geloso la sua figliolanza divina, ma facendoci partecipi di essa. In fondo, quella donna non fa altro che rendere visibile, con un simbolo, ma poi, immaginiamo, con tutta la propria vita – come vogliono fare le claustrali, appunto – proprio quel dono che per primi abbiamo ricevuto dal Cristo.

Ma abbiamo lasciato Giuda al corso della sua vicenda: ha appena contattato i sacerdoti per accordarsi su un prezzo, e cerca l’occasione propizia per consegnare Gesù. Non potevamo esaurire qui, semplicemente, questo dramma. Ci dovremo infatti tornare sopra più avanti, con la quinta meditazione. Prima, però, alcune domande per la nostra riflessione.

 

Domande per la riflessione

Pensando al silenzio di Gesù, mi domando anzitutto se comunico la fede solo con parole o se la mia vita è evangelizzante. Mi chiedo poi di che tipo sono i miei silenzi, e in relazione all’ufficio ecclesiale che svolgo, se sono colpevole di silenzi che non ci sarebbero dovuti essere.

Con la seconda domanda ci possiamo chiedere se noi, in nome di un astratto o ideale senso del sacro, soprattutto noi, che dovremmo essere al servizio dell’uomo, anziché entrare nella casa dove si trova Gesù rimaniamo fermi nel palazzo, come quei capi dei sacerdoti e anziani, che pur di far riuscire bene una festa religiosa, mettono a morte un innocente. Mi chiedo cioè se sono un “professionista del sacro”, se scendo a compromessi anch’io, pur di salvaguardare la facciata, la struttura, l’istituzione, a scapito dei diritti delle persone.

Infine, mi chiedo come mi collocherei a Betania, tra il gesto di quella donna (l’ungere i piedi) e servire i poveri che sono sempre con noi. Mi domando se scelgo solo una parte – quella più congeniale a me, o quella più “facile”, e quindi ungo i piedi a Gesù, magari con la liturgia, la preghiera, tralasciando i poveri, oppure mi dedico ai poveri, ma dimentico di pregare e dare onore a lui. Riesco a tenere insieme l’amore per Dio e quello per il prossimo (cf. Mt 22,37-40)?

 

[1] Si veda il commento al testo da M. Zlotowitz, Pirkei Avos. Ethics of the Fathers, Mesorah Publications, New York 2002, 23.

[2] Traduzioni di G. Banterle, da Ambrogio, Esamerone, Città Nuova, Roma 2002, 302.

[3] M. Buber, Storie e leggende Chassidiche, Mondadori, Milano 2008, 579.

[4] E. Wiesel, «Intervento del Professor Eliezer Wiesel, Premio Nobel per la pace», Aula di Montecitorio, Celebrazione del Giorno della Memoria (Resoconto Stenografico), mercoledì 27 gennaio 2010, 6.

[5] J.P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico. 1. Le radici del problema e della persona, Queriniana, Brescia 2002, 345.

[6] Cf. H. Hearon, «The Story of “the Woman Who Anointed Jesus” as Social Memory: A Methodological Proposal for the Study of Tradition as Memory», in A. Kirk – T. Thatcher (edd.), Memory, Tradition, and Text. Uses of the Past in Early Christianity, Society of Biblical Literature, Atlanta, GA 2005, 99-118.

[7] H. Hearon, «The Story of “the Woman Who Anointed Jesus” as Social Memory», cit., 115.

[8] N. Calduch-Benages, The Perfume of the Gospel: Jesus’ Encounters with Women, Gregorian and Biblical Press, Roma 2012, 86.

[9] M. Antonelli, «La fede, radice della vita cristiana», in La Rivista del Clero Italiano 93 (2012) 755-773; 767.

[10] S. Quinzio, Un commento alla Bibbia, Adelphi, Milano 19953, 489.

[11] E. Bianchi, Evangelo secondo Marco. Commento esegetico-spirituale, Qiqajon, Magnano (VC) 1984, 35-36.

[12] L. Orlando, La giornata di Gesù a Cafarnao. Saggio esegetico di Marco 1,21-34, Analecta Nicolaiana 16, Ecumenica Editrice, Bari 2013, 129.