• 18 Maggio 2024 13:08

La parte buona

CHE ASCOLTA E METTE IN PRATICA LA PAROLA DI DIO

I due di Emmaus e lo straniero. Commento al vangelo della III domenica di Pasqua (Lc 24,13-35)

Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, 14e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. 15Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. 16Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. 17Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; 18uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». 19Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; 20come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. 21Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. 22Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba 23e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. 24Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». 25Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! 26Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». 27E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. 28Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. 29Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. 30Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. 31Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. 32Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». 33Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, 34i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». 35Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

 

Di seguito, un commento breve, e un approfondimento (a cura di G. Michelini)

Commento

Uno dei più bei racconti delle apparizioni post-pasquali è quello raccontato da Luca alla fine del suo vangelo (Lc 24,13-35). Gesù raggiunge due dei suoi discepoli proprio lì dove questi si trovano: in cammino, durante il percorso della loro vita, in quello che è il loro pellegrinaggio di tutti i giorni. Fatto di progetti (l’arrivare a Emmaus), di fatiche (il dover percorrere undici km.), di tristezze («col volto triste», v. 17), di pause e di ripensamenti («si fermarono», v. 17). Niente di particolare, niente di diverso dalla solita routine quotidiana: un giorno come un altro, una strada come un’altra, il normale pendolarismo, ancora un’altra delusione.

Il dispiacere che addirittura segna il loro volto viene da una forte disillusione: «noi speravamo» (v. 21), dicono con un verbo all’imperfetto greco che dice un’azione che si svolge tutta nel passato, e quindi, ormai non sperano più. «La morte di Gesù ha messo fine alla speranza dei discepoli, una speranza di liberazione in chiave di restaurazione nazionale: Gesù avrebbe dovuto inaugurare la venuta del Regno, comportante la cacciata degli occupanti e il ruolo di Israele come luce delle nazioni» (G. Rossé).

La loro amarezza emerge anche dal rimprovero che fanno al viandante sconosciuto: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?» (v. 18), frase che potremmo tradurre anche con “Sei tu il solo forestiero in Gerusalemme che non sa…”. Sembra quasi una delle cose che si dicono a chi non è aggiornato, non legge i giornali, a chi non si interessa dell’attualità e rimane indietro con i tempi. Ma nella frase dei due di Emmaus forse c’è qualcosa di più.

L’evangelista Luca usa qui un verbo, paroikeo (lett: “abitare presso”, cioè: “essere straniero/forestiero, prendere residenza come straniero, abitare una terra senza avere diritto di cittadinanza”) che si trova nel Nuovo Testamento solo in un’altra occorrenza, nella Lettera agli Ebrei, quando si parla di Abramo, e si dice che questi «per fede fu forestiero nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa» (Eb 11,9). Il verbo di cui abbiamo detto si usa anche nel Primo Testamento: è usato ancora varie volte per Abramo (ad es. Gn 12,10: «Venne una carestia nel paese e Abram scese in Egitto per soggiornarvi da forestiero, perché la carestia gravava sul paese»), ma anche per il popolo d’Israele che da Abramo discende (ad es. Es 6,4: «Ho stabilito la mia alleanza con loro, per dar loro il paese di Canaan, quel paese dove essi soggiornarono come forestieri»).

Uno dei sostantivi collegati al nostro verbo lo conosciamo bene, perché ancora lo usiamo nel linguaggio ecclesiastico corrente: paroikia (da cui “parrocchia”). Questa volta il vocabolo ricorre in quel libro, la Prima lettera di Pietro, che la Chiesa ha iniziato a leggere proprio nel tempo di Pasqua: «comportatevi con timore nel tempo del vostro pellegrinaggio» (1Pt 1,17), che, traducendo alla lettera, suona proprio «nel tempo del vostro essere forestieri». Un altro sostantivo collegato è paroikos, che significa appunto “forestiero”. Ricorre ancora nello stesso libro: «Carissimi, io vi esorto come forestieri e pellegrini ad astenervi dai desideri della carne che fanno guerra all’anima». (1Pt 2,11). I primi cristiani devono aver sentito molto questo aspetto, se tale è l’insistenza in quella lettera, che proprio dice lo statuto del credente. Leggiamo poi in un testo delle origini della Chiesa, la Lettera a Diogneto: «I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio né per lingua o abiti. Essi non abitano in città proprie né parlano un linguaggio inusitato; la vita che conducono non ha nulla di strano. Abitano nella propria patria, ma come stranieri, partecipano a tutto come cittadini, e tutto sopportano come forestieri, ogni terra straniera è la loro patria e ogni patria è terra straniera. Amano tutti e da tutti sono perseguitati».

I discepoli di Emmaus, insomma, confondono il Risorto con uno dei tanti pellegrini che salivano a Gerusalemme per la Pasqua, ma con un procedimento ironico, l’evangelista ci comunica anche qualcosa di Gesù: egli era, su questa terra, di fatto, un forestiero. Il suo regno non è di questo mondo, ci scriveva il Quarto vangelo (cfr. Gv 18,36), e per questo è stato estromesso dalla città per essere crocifisso: «Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città» (Eb 13,12). Soprattutto i racconti di apparizione ci dicono che egli deve andare in un altro luogo, presso il Padre, e non può fermarsi per sempre con i suoi. Forse proprio per questa ragione, però, Gesù può consegnare ai due delusi di Emmaus un’altra storia, ovvero un’altra interpretazione di quanto accaduto, basata su una lettura che infonde speranza e scalda il cuore. Se quei discepoli avevano chiuso la loro interpretazione con il sigillo della sconfitta, la parola del Risorto riapre le loro tombe, e questo è possibile proprio perché Lui viene “da fuori”, è uno “straniero”.

I credenti, come testimoniano lo scritto apostolico di Pietro e la Lettera a Diogneto, sono come Gesù, non possono fare a meno di condividerne la sorte. Sono anch’essi invitati ad «uscire dall’accampamento, e ad andare verso di lui, portando il suo obbrobrio, perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura» (cfr. Eb 13,13-14). Il pane spezzato dal Risorto e dato ai discepoli, attraverso il quale viene riconosciuto, è allora il pane per il cammino, il viatico che ci dà la forza nel nostro terreno pellegrinaggio di stranieri su questa terra.

Un’ultima idea. Si sta facendo strada l’ipotesi che i due di Emmaus non fossero discepoli maschi, come normalmente si intende, e come è stato poi reso dalla tradizione e dall’arte. E nemmeno vi sono indizi che questi arrivassero ad invitare Gesù a stare in una locanda. Piuttosto, si potrebbe vedere ora in quei due una coppia. La lettura della Parola di Dio, che è stata spesso condizionata dall’ambiente monastico in cui essa è stata a lungo praticata, si offre anche all’interpretazione in contesto familiare, e nulla vieta perché le coppie di sposi possano ritrovarsi pienamente nei panni di quei due – marito e moglie (solo il nome maschile viene dato da Luca) – che finalmente ritrovano in Gesù il senso della loro gioia.

 

Approfondimento

  1. I due di Emmaus come due di noi

Uno dei più bei racconti delle apparizioni post-pasquali è quello narrato da Luca alla fine del suo vangelo (24,13-35). Gesù raggiunge due dei suoi discepoli proprio lì dove questi si trovano: in cammino, andando verso una delle tante periferie dell’Impero Romano. Prima che diventasse famosa nel mondo cristiano per questa vicenda, Emmaus – qualunque dei tre luoghi identificato con l’Emmaus biblica – non doveva essere una grande località. Forse anche per questa ragione il percorso dei discepoli che tornano a casa da Gerusalemme si presta ad essere interpretato in senso spirituale. In una interpretazione esistenziale, il percorso verso Emmaus è quello della vita, il loro pellegrinaggio di tutti i giorni («in quello stesso giorno», v. 13), fatto di progetti (l’arrivare a Emmaus), di fatiche (il dover percorrere undici km.), di tristezze («col volto triste», v. 17), di pause e di ripensamenti («si fermarono», v. 17). È il cammino della solita routine quotidiana: un giorno come un altro, una strada come un’altra, il normale pendolarismo, ancora un’altra delusione.

Stando comunque al brano, tutto accade nell’assoluta ferialità. Non deve sfuggirci che «quello stesso giorno» del v. 13 è, come detto all’inizio del capitolo ventiquattresimo del vangelo, «il primo giorno della settimana» (24,1). Se ha ragione Matteo Crimella a trovare una possibile allusione al racconto della creazione di Gen 1,5, «nel quale il primo giorno è proprio chiamato così (yôm ̕ehād e nella Settanta heméra mía»[1]), è però anche vero che nel computo della settimana giudaica si tratta del giorno dopo l’ultimo, cioè, in rapporto alla settimana attuale, di un “nostro lunedì”: il giorno dopo il sabato è quello del ritorno alla vita di tutti i giorni. Rispetto al racconto della manifestazione di Gesù sul monte della Trasfigurazione, che viene resa col massimo dei mezzi retorici e stilistici per descrivere lo splendore di Gesù, del suo volto e della sua veste, qui – come in tutti i racconti delle apparizioni nei vangeli canonici – siamo di fronte a una ferialità sconcertante.

Il Risorto si mostra e non viene riconosciuto: evidentemente l’agnizione non è solo uno strumento retorico, ma il modo con cui Dio si rivela e parla. Quanta distanza rispetto agli apocrifi, come il Vangelo di Pietro, nel quale anche i soldati a guardia del sepolcro sono costretti ad ammettere che è risorto, perché vedono che «la testa dei due [uomini; leggi “angeli”] arrivava fino al cielo, ma la testa di colui che conducevano per mano», fuori dalla tomba, «oltrepassava i cieli»: la gloria di Gesù è quella di colui che è superiore agli angeli, e per questo «egli ha dimensioni gigantesche, penetra nei cieli, segno della sua condizione divina»[2]. Quando il Risorto appare ai suoi, o non è riconosciuto, o è scambiato per qualcun altro (come il custode del giardino di Gv 20,15).

 

  1. La predica della delusione

I due discepoli – chiunque essi siano – hanno il volto segnato da una forte disillusione: «noi speravamo» (elpízomen, Lc 24,21), dicono, e quindi, ormai non sperano più; l’imperfetto è il tempo delle azioni accadute nel passato, che si compiono ieri e non hanno più alcuna correlazione con l’oggi. Quell’antica speranza non ha lasciato tracce, anche perché i discepoli speravano nella liberazione di Israele, come riferiscono (24,21), e nella venuta del Regno concomitante con la cacciata dei Romani. Ma sono proprio stati i Romani a mettere a morte Gesù.

I due di Emmaus non solo si raccontano quanto accaduto. Nella loro disillusione, si rafforzano reciprocamente nelle loro idee. A leggere il greco, in fatti, il v. 14 suggerisce che era come se si tenessero l’un l’altro una predica, l’omelia: autoì homíloun pròs allélous; il verbo è proprio homiléo, a indicare che si tratta, scrive F. Bovon, di una conversazione molto seria, proprio quasi di una predica[3]. La loro delusione si rafforza nella visione che vicendevolmente si raccontano. È un meccanismo a cui siamo abituati, soprattutto in alcune situazioni comunitarie, quando ci si lamenta e si innesca quel fenomeno ricorsivo che caratterizza anche la Chiesa di oggi.

Forse per i due di Emmaus di lamentarsi c’è anche ragione, e i vangeli infatti non nascondono lo smarrimento che caratterizza il tempo tra la morte e risurrezione del Signore e la sua rinnovata presenza. Il capitolo ventunesimo del vangelo di Giovanni, con Pietro che dice «Io vado a pescare» (Gv 21,3) ma non riesce a prendere nulla evoca forse la stessa situazione: il Risorto non si vede, e infatti i due di Emmaus dicono proprio che quelli che sono andati a cercarlo non l’hanno visto (Lc 24,24).

Questi discorsi che i due discepoli si scambiano però non solo rafforzano la loro delusione, portano anche a una divisione. Alludiamo al significato di un altro verbo, quello al v. 17, con il quale è proprio Gesù che, dopo essersi avvicinato loro, descrive quanto stanno facendo, antibállo, che significa non solo “discutere”, ma nel suo primo significato è proprio “lanciare contro”, “disputare”, “controbattere”.

 

  1. Alcuni segni per uscire dalla crisi

Che cosa si può fare, quando i discepoli entrano in una crisi e si ritrovano in un circuito delusivo? Nemmeno i segni che sono stati già dati loro bastano più, e – possiamo aggiungere – meno male che è proprio così. Soprattutto, sono segni importanti, ma che non forzano mai a credere.

Il primo è la tomba vuota, come si spiega anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica: «Nel quadro degli avvenimenti di Pasqua, il primo elemento che si incontra è il sepolcro vuoto. Non è in sé una prova diretta. L’assenza del corpo di Cristo nella tomba potrebbe spiegarsi altrimenti. Malgrado ciò, il sepolcro vuoto ha costituito per tutti un segno essenziale. La sua scoperta da parte dei discepoli è stato il primo passo verso il riconoscimento dell’evento della Risurrezione» (CCC 640). Il segno della tomba vuota è eloquente, ma può significare molte cose, troppe cose, come accade per i nostri fallimenti e i nostri errori e le nostre tombe: ecco allora che c’è bisogno di un’interpretazione di quel segno.

Essa viene proprio dagli angeli ermeneuti (come quelli citati in Lc 24,23), che sono in grado di riferire un’altra versione, rispetto a quella che, ad esempio, subito si auto-fornisce Maria, immaginando che qualcuno abbia portato via il suo Signore (cf. Gv 20,2.13.15), o rispetto a quella che viene data dai capi dei sacerdoti e dagli anziani di Gerusalemme, che infatti dicono che sono stati i discepoli di Gesù a rubare di notte il suo cadavere (cf. Mt 28,11-15). Servono degli angeli – angeli o uomini[4] – che dicano che «si è alzato», «è stato sollevato», «è risorto» (Mc 16,6).

Secondo i vangeli, l’unico discepolo che non ha avuto bisogno delle loro spiegazioni è il discepolo che Gesù amava: forse per questo amore, appena giunto alla tomba vuota, vede e crede senza che alcuno gli spieghi nulla. È l’unico, osserva implicitamente Giovanni, che aveva capito la Scrittura (cf. Gv 20,9): è quanto dovrà accadere anche per i due di Emmaus. Per tutti gli altri discepoli, invece, i racconti pasquali presumono che – come anche per la nostra vita – servano interpreti, esegeti, non solo di parole, ma dei fatti accaduti. Interpreti capaci di spiegare e dare un senso a quello che ci è successo, in particolare alle delusioni più grandi, alle croci più dolorose. Se l’angelo è qualcuno che viene da fuori, dall’alto, ora per i due di Emmaus arriva un altro straniero, un forestiero.

 

  1. La metodologia del Risorto a Emmaus

Nella storia dei due discepoli di Emmaus – pur non essendo presenti gli angeli – è Gesù in persona che interviene. Per loro solo l’incontro personale con Gesù e con la sua Parola può ribaltare la situazione. Il percorso a tappe che racconta Luca può essere visto in questi punti principali.

  • In primo luogo, Gesù è in qualche modo “fuori” dalla situazione. Tra loro due, i discepoli di Emmaus si raccontano sempre la stessa storia. Gesù invece è definito in Lc 24,18 paroikeis, “forestiero”, secondo la versione CEI. Il termine è in realtà un verbo, paroikéo, che conosciamo bene perché da qui viene il sostantivo “parrocchia”. Il verbo è composto da oikéo, “abitare”, e para, “presso”: possiamo pensare, con Tucidide, a “chi abita vicino”, è “confinante”, ma, con altri autori antichi, che è comunque “straniero” (Diogene Laerzio)[5]. Il verbo ricorre solo un’altra volta nel Nuovo Testamento, in Eb 11,9, per descrivere Abramo, che per fede «fu forestiero nella terra promessa come in una regione straniera»[6]. Il dono dello straniero è quello di chi sa portare una prospettiva “altra”, impensata, capace di rovesciare il tavolo dalle carte incartate che lo occupano da troppo tempo. Quello che sembra un normale pellegrino che è andato a Gerusalemme per la Pasqua, e che pare non essere al corrente di quanto accaduto, è l’unico capace di vedere le cose come stanno veramente e dare una chiave di lettura che i due di Emmaus non si sarebbero potuta dare.
  • Gesù si avvicina e cammina con loro: come poi farà Filippo, per scendere in Samaria per poi finalmente correre e raggiungere il carro del funzionario etiope e salirvi sopra, dopo avergli chiesto «Capisci quello che stai leggendo?» (At 8,30). Il Risorto si prende tempo per coloro che ora sta accompagnando, proprio come il neanískos che si era occupato di chi andava alla tomba ed era seduto sul sepolcro (Mc 16,5). Certo, la sua postura emula quella del Cristo, seduto alla destra di Dio (cf. «Siedi alla mia destra»; Mc 12,36 e Sal 109,1 LXX), ma non si può dimenticare l’angelo che prende del tempo per confortare il pusillanime Gedeone, e per questo «venne a sedere sotto il terebinto di Ofra» per poi chiamarlo all’ufficio di Giudice (cf. Gdc 6,11).
  • Gesù pone delle domande – come già Filippo con il funzionario etiope – e lascia che i due di Emmaus rispondano. Non dà subito la soluzione, e non nega nemmeno quanto i due stanno dicendo. Ponendo domande, dà loro credito. Si tratta del modo in cui Gesù interviene di fronte ad alcune situazioni critiche, come quando, ad es., ancora nel Terzo vangelo, è un dottore della Legge a fargli una domanda difficile, alla quale Gesù risponde con la controdomanda «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?» (Lc 10,26). È un investimento di fiducia, con il quale l’opinione dell’altro viene ascoltata e rispettata. Solo dopo Gesù potrà rimproverare i due discepoli (24,25), solo dopo averli ascoltati.
  • Come detto, Gesù rimprovera i suoi discepoli. In gioco non c’è il fatto che questi non l’abbiano ancora riconosciuto, quanto piuttosto la loro incapacità di comprendere le Scritture. In qualche modo, i due di Emmaus sono proprio come Marta, la sorella di Maria, e per questo vengono educati dal Maestro. Anch’essi sono senza intelligenza (anóetoi) e lenti (bradeis) nel credere (24,25), perché hanno mancato di esercitare non solo la fede, ma anche la ragione.
  • Infine, anche Gesù – ora al momento opportuno – inizia la sua interpretazione (il verbo al v. 27, tradotto da CEI con “spiegare”, è dierméneusen, da diermeneúo, “tradurre”, “interpretare”) e tiene la sua omelia, «cominciando da Mosè e da tutti i profeti» (24,27). A fronte dell’omelia che si sono fatti i due, Gesù intreccia un vero e proprio sermone, di cui sottolineiamo solo le seguenti caratteristiche.

Mentre l’omelia dei due di Emmaus è un loop che non va da nessuna parte, quella di Gesù ha un inizio e una conclusione. Ci vengono alla mente i sentieri interrotti di cui parlava Martin Heidegger, che conosceva bene la Foresta Nera, quando scriveva: «Legnaioli e guardaboschi li conoscono bene. Essi sanno che cosa significa trovarsi in un sentiero che, interrompendosi, svia»[7]. Il rischio di molti discepoli è proprio quello di perdersi in strade che non portano a nulla, in pensieri che si ripetono: Gesù sblocca questa situazione con la sua Parola. In questo modo il Maestro termina ad Emmaus il sermone iniziato a Nazaret, quando nella sinagoga aveva inaugurato l’anno della liberazione e aveva tenuto la più breve ma dirompente omelia della storia (nove parole nel greco: cf. Lc 4,21: «Oggi si è compiuta questa Scrittura nelle vostre orecchie»). È la tesi di un esegeta, che vede tutto il vangelo di Luca come lo sviluppo di quanto Gesù aveva anticipato a Nazaret, che si è realizzato nella sua vita, ed è narrato nelle sue conclusioni a Emmaus[8].

Gesù interpreta le Scritture con il classico metodo rabbinico della “collana”, ma così facendo interpreta la vita dei due discepoli. Offre loro un’altra storia, cioè un’altra versione della storia che essi hanno narrato, che era corretta ma che mancava della conclusione. È la caratteristica della lettura di fede, della lettura cristiana che non toglie nulla a quanto si trova nel Primo Testamento, ma lo legge alla luce di Cristo. Si noti la particolarità di questa operazione: se da una parte Gesù (la lettura cristiana) aggiunge qualcosa che nelle profezie non si trovava (circa la morte di un Messia, mai prevista dai profeti), dall’altra però quelle profezie sono ancora capaci di illuminare quanto accaduto. Il Risorto, che si sarebbe potuto limitare a ribadire che è uscito vivo dalla tomba, riprende invece la matassa ingarbugliata della storia narrata dai due di Emmaus, e la districa trovando il filo che tiene unito tutto.

Infine, Gesù spezza il pane per i suoi. Viene riconosciuto così con un gesto familiare, quello della berakah (24,31) che si pronuncia ad ogni pasto, e che però aveva caratterizzato il sacrificio di Cristo nella sua ultima cena. Gesù così non si accontenta di passare un po’ di tempo coi suoi discepoli delusi, o di riscaldare il loro cuore aprendo loro il senso le Scritture, ma mangia con loro, ribadendo l’amore che aveva avuto nei loro confronti, dando loro la sua vita, cioè il suo corpo e il suo sangue. Li mette così in grado di riconoscerlo poi nei santi segni, nella storia, nei poveri, negli stranieri che incontreranno d’ora in avanti.

 

  1. Il riconoscimento

Aristotele nella sua Poetica tratta di diversi tipi di riconoscimento. Quello qui descritto da Luca sembra assomigliare a quello «dovuto al ricordo» (διὰ μνήμης). Lo Stagirita cita due esempi, del quale noto è il pianto di Ulisse, nell’ottavo libro dell’Odissea (vv. 521 sgg.), all’ascolto di alcuni episodi della guerra di Troia cantati dal poeta Demodico, durante il banchetto dato da Alcinoo in onore dell’ospite; il che consente al re di riconoscerlo (Poetica, 1455a 1-4). Ulisse piange, e per questo viene riconosciuto: «Il cuore di Odisseo si struggeva, e sotto le ciglia le lacrime scorrevano sulle sue guance. […] Tutti gli altri non si accorsero che lui versava lacrime, ma Alcinoo lo guardò e capì, perché sedeva accanto a lui e aveva sentito i suoi singhiozzi profondi» (Odissea, canto VIII, 524.532-534). Odisseo si trova in esilio, non è più ad Itaca: si trova nella terra dei Feaci, ed entra nel palazzo di Alcinoo, il re di quel popolo. Demodoco, l’aedo, canta le imprese di Odisseo, e Ulisse ricorda, e viene riconosciuto dal re, e svelerà la sua identità. Nella cena di Emmaus, Gesù compie un gesto, e viene riconosciuto – un gesto che suscita il ricordo di chi l’aveva già visto fare, quello dello spezzare il pane. Per poter riconoscere Gesù, è necessario fare un tratto di strada con lui, farlo entrare nella propria casa, e sedersi con lui alla tavola.

La conclusione della pagina è bellissima. Il ministero dei due di Emmaus che scaturirà da questa cena sarà quello dell’annuncio: è un annuncio che parte dalle periferie. Emmaus non è Gerusalemme, e ora è lì che Gesù si mostra, in una casa (chi ha detto che fosse un “albergo”?), non nella città dove è morto. Bisogna cercare Gesù dove si lascia trovare, come uno “straniero”, che cammina però accanto a coloro che sanno accoglierlo.

Un’ultima idea. Anche se il testo lucano non dice nulla esplicitamente a riguardo, si sta facendo strada l’idea che i due di Emmaus non fossero discepoli maschi, come normalmente si intende, e come è stato poi reso dalla tradizione e dall’arte. E nemmeno vi sono indizi che questi arrivassero ad invitare Gesù a stare in una locanda. Piuttosto, si potrebbe vedere ora in quei due una coppia. La lettura della Parola di Dio, che è stata spesso condizionata dall’ambiente monastico in cui essa è stata a lungo praticata, si offre anche all’interpretazione in contesto familiare, e nulla vieta perché le coppie di sposi possano ritrovarsi pienamente nei panni di quei due – marito e moglie (solo il nome maschile viene dato da Luca) – che finalmente ritrovano in Gesù il senso della loro gioia. Per un orientamento su questo tema, si può visitare il sito internet: https://artandtheology.org/2017/04/28/the-unnamed-emmaus-disciple-mary-wife-of-cleopas/

 

Note

[1] M. Crimella, Luca. Introduzione, traduzione e commento, cit., 361.

[2] A. Puig i Tàrrech, I vangeli aprocrifi, I, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, 286.

[3] F. Bovon, Luke 3. A Commentary on the Gospel of Luke 19:28–24:53, Fortress Press, Minneapolis, MN 2012, 372.

[4] Nel giudaismo del Secondo Tempio era comune parlare di angeli raffigurandoseli come giovani uomini; per la documentazione, si veda ad es. A.Y. Collins, Mark. A Commentary on the Gospel of Mark, Fortress Press, Minneapolis, MN 2007, 795, n. 222.

[5] Cf. R. Romizi, Greco antico. Vocabolario greco italiano etimologico e ragionato, Zanichelli, Bologna 2007, 947.

[6] Il verbo nel Primo Testamento è usato ancora varie volte per Abramo (ad es. Gen 12,10: «Venne una carestia nel paese e Abram scese in Egitto per soggiornarvi da forestiero»), ma anche per il popolo d’Israele che da Abramo discende (ad es. Es 6,4: «Ho stabilito la mia alleanza con loro, per dar loro il paese di Canaan, quel paese dove essi soggiornarono come forestieri»).

[7] M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, 1.

[8] Cf. D. Monshouwer, «The Reading of the Prophet in the Synagogue at Nazareth», Biblica 72 (1991) 90-99.