• 19 Aprile 2024 5:31

La parte buona

CHE ASCOLTA E METTE IN PRATICA LA PAROLA DI DIO

Commento al Vangelo dell’Epifania (Mt 2,1-12), a cura di Giulio Michelini

(Mt 2,1-12) Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”». Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.

Primo commento (Giulio Michelini) – La fragilità della Parola

Del racconto della fuga in Egitto cogliamo spesso la centralità delle figure dei magi: per questa solennità dell’Epifania ci soffermiamo invece sulla trama con cui Matteo ha costruito la narrazione. Ci impressiona infatti come tutto la storia sia percorsa da una vera e propria suspense. Non solo, ogni cosa è come appesa ad un filo. Riflettiamo, tralasciando molte cose ed entrando nella costruzione del racconto.

I magi vedono una stella, e iniziano un viaggio lunghissimo, ma questo segno ad un certo punto scompare. Come faranno a trovare la strada? Prima difficoltà.

Per trovarne ancora le tracce, i magi si rivolgono addirittura al nemico numero uno di Gesù (anche se questo il lettore del Vangelo non può ancora saperlo: lo scoprirà solo più tardi). L’ironia è qui particolarmente forte, perché ad un re che non è giudeo si domanda: «Dov’è il re dei Giudei che è nato?» (Mt 2,2). Ma nemmeno il re – e con lui «tutta Gerusalemme» – (2,3) sa di cosa parlino i magi, anzi nessuno sembra sapere che deve nascere colui che ora non è più soltanto un re, ma è addirittura diventato il Messia (2,4). Come faranno i magi, e cosa farà Erode? Seconda difficoltà.

La palla passa allora ai sapienti, agli esperti delle Scritture, che riescono a scovare un antico libro nel quale è scritta la profezia sul luogo che è Betlemme. Di questa città però sia il re, sia i sapienti d’Israele (e anche i lettori di Matteo) apprendono che è in realtà un borgo piccolissimo della Giudea, che quasi sfugge alle carte geografiche, anche se era stato onorato dal poter dare i natali alla famiglia di Davide: potrà davvero un luogo così piccolo e in provincia dare i natali al re-messia? E, soprattutto, si può credere ancora a quelle profezie o sono solo storie raccontate e che avevano senso una volta? Terza difficoltà.

I magi riprendono finalmente il viaggio, sapendo dove andare, e ritrovano la stella. Ma insieme alla stella compare nuovamente all’orizzonte l’ombra della morte: il re Erode, che vuole sapere se è nato o non è nato il re dei Giudei, andrà davvero ad adorarlo (2,8), come dice lui, oppure farà qualche altra cosa? Quarta difficoltà.

Finalmente, i magi arrivano alla casa di Betlemme, e sono appagati da tutte le loro fatiche. Prima che partano per tornare indietro però i magi fanno un sogno: fragile realtà, questa, fatta di quella strana materia, direbbe Shakespeare nella sua Tempesta, di cui sono fatti anche i personaggi di un dramma in teatro. Si può davvero credere ad un sogno? O si rivelerà semplicemente un’illusione? Quinta difficoltà.

I magi ci credono e fanno ritorno al loro paese per un’altra strada, salvandosi (forse) essi stessi da Erode, e dando un po’ di tempo al bambino e alla sua famiglia per fuggire in Egitto. Miracolosamente, tutto si conclude per il migliore dei modi. Ma un dubbio rimane nella mente del lettore: cosa significheranno quei doni che i magi hanno portato al bambino?

Tiriamo le fila. Tantissimi sono i livelli con cui possiamo leggere il vangelo di oggi. Quello cristologico: il re-messia è destinato a regnare, ma contro di lui vi è già, prima ancora che nasca, un regno molto ostile; i doni dei magi dicono poi che si tratta di un messia molto particolare, e nella mirra vi è addirittura un possibile presagio della morte per salvare il popolo di Israele dai suoi peccati (cfr. Mt 1,21). Il livello teologico: i magi con la conoscenza “naturale” delle stelle e con tutta la loro sapienza possono arrivare solo fino ad un certo punto, ma non a Betlemme: per giungere a contemplare Dio serve qualcuno, come gli scribi, che conosca le Scritture e le sappia leggere. Anzi, servono proprio le Scritture, la Parola di Dio, la sua rivelazione positiva. Il livello della storia della salvezza: l’Antico Testamento è per Matteo profezia del Nuovo. Negli oracoli del profeta su Betlemme c’è chiaramente scritto che il Messia viene dalla casa di Davide: si porta così a compimento quanto scritto anche nel Secondo libro di Samuele, quando il profeta Natan dice al re Davide: «Te poi il Signore farà grande, poiché una casa farà a te il Signore» (2Sam 7,11-13).

C’è soprattutto, in questo racconto, il livello della fragilità della Parola. Tutto nel nostro racconto è appeso ad un filo, ma soprattutto ci stupisce il fatto che né il re dei Giudei, né i sommi sacerdoti né tanto meno gli esperti della Scrittura, cioè gli scribi, si preoccupino di capire fino in fondo quello che sta accadendo. Ma come?, arrivano dei sapienti da lontano che affrontano un lungo viaggio, chiedono aiuto e illuminazione, e quando finalmente si capisce che la risposta alla domanda dei magi è nelle Scritture, nessuno a Gerusalemme le prende sul serio. Quanto è ancora vero tutto questo. E quante volte le Parole di Dio che sono nella Bibbia ci scivolano via nelle sedi che anche per noi sono quelle più preposte per invece ascoltarle.

Ma da tale libertà dipende la forza – e la fragilità – della Parola di Dio. Se spesse volte siamo portati a ritenerla, giustamente, potente e forte come «una spada a doppio taglio» (Eb 4,12), capace di illuminare la nostra vita come una «lampada per i nostri passi» (Sal 105), eterna Parola che non verrà mai meno, mentre tutte le altre cose di questo mondo passeranno (cfr. 1Pt 1,25), ebbene, se tutto questo è vero, è vero anche che la parola è così fragile che si affida al nostro ascolto. Guai se ci fosse imposto di credere, o di capire quanto è invece abbandonato alla nostra povera fede. Il fatto che da Gerusalemme nessuno si muova, conferma che solo per fede puoi vedere in quel bambino il Messia, e solo così prostrarti, ed adorarlo.

 

Secondo commento (Giulio Michelini)

Ed entrano in scena anche nel racconto di Matteo – come in quello di Luca, nel quale nottetempo arrivano i pastori – personaggi inaspettati, che forse dovremmo definire «maghi», piuttosto che «Magi», dal momento che le altre volte in cui la parola greca mágoi ricorre nella Bibbia (come in Daniele 2,2.27 e in Atti 13,6.8) viene resa (anche nella versione CEI) proprio con «maghi». Con questa traduzione non vogliamo intendere che fossero «stregoni» o «ciarlatani», ma alludere a quel termine risalente al nome di una tribù della Media che nella religione persiana aveva funzioni sacerdotali e si occupava di astronomia o di astrologia. In diversi testi antichi il termine «mago» è in rapporto con fenomeni di chiaroveggenza, di interpretazione dei sogni, di profezia, e i maghi di Matteo non dovrebbero rappresentare un’eccezione.

I maghi di cui scrive Matteo nella storia dell’interpretazione e nella liturgia cristiana sono stati normalmente visti come stranieri, Gentili rappresentanti di quei credenti in Cristo che iniziano a unirsi alla comunità cristiana e provengono appunto dai non circoncisi. Basterà leggere qualche pagina di uno dei più importanti studiosi delle religioni, come Julien Ries, per apprendere che dal punto di vista della storia antica non vi sono obiezioni a questa tesi: dagli storici i «Magi» sono visti «abitualmente come sacerdoti del culto di Mithra che circolavano nel Vicino Oriente e si occupavano di astrologia. […]. Rappresentano una casta sacerdotale dei Medi, di origine indoeuropea, che adottò lo zoroastrismo e dirigeva i sacrifici. Mithra fu probabilmente una delle loro divinità principali. Si dedicavano inoltre all’interpretazione dei sogni, avevano familiarità con l’astrologia e sotto gli Achemenidi erano i custodi del rituale avestico». In un noto dizionario delle religioni, poi, Duchesne-Guillemin parla dei maghi come di una casta sacerdotale che praticava il culto solare, la divinazione e l’oniromanzia, ma non la magia nefasta. Sarebbero insomma gli stessi personaggi che vanno a prostrarsi a Betlemme, secondo il racconto di Matteo 2,1-12.

Il punto, però, qui, è un altro, ovvero se il vangelo di Matteo voglia alludere proprio a questi personaggi. L’idea che questi personaggi siano stranieri è infatti aliena al piano teologico del Primo vangelo e, soprattutto, difficilmente dimostrabile attraverso il testo, anche se è vero che il titolo «re dei Giudei», usato dai maghi in Matteo 2,1, era comune per gli occupanti romani – dunque da non ebrei – per indicare i sovrani locali. Questo elemento però non sembra decisivo, e ‒ come vedremo tra poco ‒ soprattutto il titolo «re dei Giudei» ha una sua importanza nel piano narrativo di Matteo, perché svolge un ruolo prolettico rispetto alla passione di Gesù, durante la quale sarà nuovamente usato per riferirsi ironicamente al Messia (Matteo 27,11.29.37).

L’idea che i maghi siano Gentili ha avuto fortuna anche perché implica che mentre ad adorare Gesù vanno gli stranieri, Israele rimarrebbe (col suo re e i suoi saggi) chiuso e fermo a Gerusalemme; in questo senso, ha una chiara tonalità antigiudaica. L’argomento più forte contro questa lettura è che la maggior parte delle volte in cui compare la parola «mago» nel Primo Testamento, ovvero nel libro di Daniele, il termine designa sì astrologi pagani, ma dei quali diventa capo un ebreo, Daniele (cfr. 2,48), che vive proprio a Babilonia, uno dei luoghi identificabili con l’espressione matteana «dall’oriente» (Matteo 2,1). A nostro parere i maghi potrebbero rappresentare quegli ebrei della diaspora, idealmente discendenti delle dieci tribù disperse in qualche luogo dell’Assiria o di Babilonia, e mai tornati in patria con Esdra. Se infatti solo tre tribù uscirono dall’esilio (Giuda, Levi e Beniamino), l’attesa per una totale reintegrazione era forte anche al tempo di Gesù. Questi prima, e Matteo poi, dovevano conoscere quella preghiera giudaica delle Diciotto benedizioni, con la quale si chiedeva a Dio proprio il ritorno degli esiliati al suono del «grande shofar» (a cui allude Matteo 24,31). Ora, in forza della loro abilità di interpretare segni e sogni, questi sapienti-maghi sarebbero finalmente in grado di tornare nella loro terra d’origine, perché è nato il re che pascerà le tribù di Israele.

L’ipotesi che i maghi siano ebrei non è comune, ma è già stata avanzata da altri studiosi. Se c’è chi ha pensato che fossero esseni, la possibilità che appartengano a Israele si è comunque ora fatta strada in diverse ricerche, e con argomenti indipendenti. Si può obiettare che la magia è rigidamente proibita nella Bibbia, ma è vero che i rabbini dovevano tollerarne alcune pratiche (Abramo, per esempio, era ritenuto esperto di astrologia) o comunque ritenevano che se ne dovessero conoscere i misteri. In ogni caso, i maghi di Matteo sono più astrologi o sapienti, capaci di attività divinatoria e di interpretare i sogni, proprio come Daniele, che sapeva scrutare i misteri di Dio (cfr. Daniele 2,22). La teologia che deriva da questa interpretazione si spiega attraverso la citazione profetica in Matteo 2,6, interpretata e spiegata dagli scribi di Gerusalemme, sapienti come i maghi.

In Matteo 2,6 apprendiamo che gli scribi trovano una profezia determinante per la riuscita della ricerca dei maghi: è solo grazie alla conoscenza delle Scritture di questi uomini istruiti, e dei sommi sacerdoti, che coloro che vengono dall’Oriente possono raggiungere il bambino. L’interpretazione delle stelle, dunque, non è sufficiente; bisogna scrutare le profezie, decifrabili da coloro che allora erano seduti «sulla cattedra di Mosè» (Matteo 23,2-3), e che anche i maghi sembrano comprendere e accogliere. Insieme a un versetto tratto dal profeta Michea, l’evangelista rievoca anche l’investitura di Davide come re di Israele (cfr. 2 Samuele 5,1-2), introducendo così un tema caratteristico del Primo vangelo, quello del re-pastore venuto per le pecore disperse di Israele, come e più di Mosè e Davide: Gesù – già presentato come erede di Davide nel primo versetto del vangelo – è ora colui che radunerà le tribù disperse per riportarle alla loro terra. L’esilio, quello di cui Matteo ha parlato per quattro volte nella genealogia di Gesù (Matteo 1,11.12.17), vedeva ancora a oriente della terra d’Israele una consistente diaspora di ebrei che dimoravano a Babilonia. Questa diaspora, sembra dire Matteo, sta per finire, e l’erede di Davide riceve la visita e l’onore – come re successore di un re – degli ebrei che lo riconoscono come colui che raccoglierà le pecore disperse della casa d’Israele per le quali è stato mandato.

Nonostante la corretta interpretazione delle Scritture, né i sommi sacerdoti, né gli scribi (tanto meno Erode) si muovono per andare a Betlemme: solo i maghi proseguono il loro viaggio. Il riunirsi dei sacerdoti e dei sapienti ha ricordato a qualche esegeta quanto accadrà alla fine del vangelo: lì, ancora una volta, sarà radunato un «sinedrio» (cfr. Matteo 5,22; 10,17) per giudicare Gesù (Matteo 26,59) e condannarlo a morte (con il motivo scritto sul suo capo «Gesù, il re dei Giudei», al modo in cui il bambino cercato dai maghi è «re dei Giudei», 2,2), con la complicità di Pilato, così come ora Erode vuole mettere a morte il bambino. I paralleli però finiscono qui, perché – differentemente da Marco (che subito, all’inizio del suo vangelo, in 2,20, parla dello sposo che «sarà loro tolto via») e da Luca (nel cui vangelo dell’infanzia una nota tragica viene dalla profezia di Simeone a Maria, e anche dall’episodio di Gesù al tempio) – in Matteo non sembra che il tema della passione, che in effetti è emerso in Matteo 1,21 («salverà il suo popolo»), venga poi sviluppato dall’evangelista in questa parte del racconto. La famiglia di Gesù, comunque, è in pericolo anche nel Primo vangelo, e vive l’esperienza della migrazione forzata, verso l’Egitto, luogo di salvezza già per i patriarchi (Abramo, Giuseppe…), che però si manifesterà come luogo di schiavitù dove l’identità degli ebrei rischia di dissolversi: per questo il bambino deve essere richiamato dall’Egitto.

Infine, a conclusione della pagina, in Matteo 2,12 si racconta il secondo sogno del vangelo dell’infanzia di Matteo. Come già Giuseppe, anche i maghi capiscono quanto devono fare, e nonostante la debolezza della comunicazione ricevuta, lo mettono in atto. Sempre in Matteo 2,12 si dice del ritorno dei maghi a Oriente; a loro basta avere visto il re dei Giudei e avere sperimentato quella grande gioia: non possono restare, la loro casa è altrove. Anzitutto, però, devono mettersi al riparo: secondo Adriana Destro e Mauro Pesce, la fuga di Giuseppe e Maria, col bambino, in Egitto (di cui diremo nel prossimo capitolo), e quella dei maghi verso la loro casa, rappresentano un modello comportamentale che l’evangelista Matteo propone nelle situazioni di difficoltà e di crisi, modello che in fondo rende possibile quel precetto dell’amore per il nemico (cfr. Matteo 5,44-48), opposto al desiderio del suo annientamento. Gesù stesso, nel vangelo di Matteo, si metterà più volte al riparo, ritirandosi, nei momenti di pericolo (cfr. Matteo 4,12; 12,15; 14,13; 15,21).

Col ritorno dei sapienti in Oriente si dice anche che l’esilio non è terminato, non solo quello del popolo ebraico, ma anche quello dei cristiani: proprio intorno al 70 d.C., con l’esercito romano che stava occupando la Galilea, Gerusalemme e i dintorni, gruppi di giudeo-cristiani – secondo le notizie di Eusebio ed Epifanio – devono essere andati a Pella per non partecipare alla rivolta e mettersi al riparo; dopo l’esilio di Efraim e quello babilonese, ne è iniziato uno ancora più significativo. In fondo, però, la diaspora e l’esilio rappresentano molto più di una contingenza storica: sono le categorie con cui si è compreso Abramo, «forestiero e di passaggio» (Genesi 23,4; cfr. Ebrei 11,13) e si sono letti poi i cristiani (cfr. Gc 1,1: «alle dodici tribù che sono nella diaspora»; e 1 Pietro 1,1: «ai pellegrini dispersi…»).